Il testo che segue è una sintesi di quanto, a cura dell’Associazione Italia Tibet, è stato tratto dal libro di Piero Verni (Il Tibet nel cuore). Per la versione completa, si rimanda alle pagine del sito (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8).
Le origini
Le origini del popolo tibetano rimangono ancora oggi piuttosto misteriose. Secondo la tradizione mitologica i remoti antenati degli abitanti del Tibet sarebbero stati uno scimmione, considerato un’incarnazione della deità Chenrezig e una sorta di orchessa venerata come nume tutelare della montagna. La loro unione avrebbe dato vita ad una bizzarra prole, strani esseri metà uomini e metà scimmie da cui, attraverso un considerevole numero di generazioni, si evolse gradualmente la razza tibetana.
Dimensione mitica a parte, la moderna antropologia colloca i tibetani all’interno di quella vasta famiglia etnica nota con il nome di ceppo mongolide che comprende diversi popoli dell’area centro asiatica. In effetti non è semplice determinare con certezza l’origine degli abitanti del Tibet. Alcuni tratti somatici ricordano i mongoli mentre altri siano più simili ai nativi d’America e altri ancora ai giapponesi o cinesi. Pur essendo di fronte a una tale varietà di tipologie si possono comunque stabilire alcuni punti. Gli abitanti delle regioni centrali di U e Tsang, e in larga parte anche quelli del Tibet occidentale, sono di statura media, hanno la testa rotonda e gli zigomi pronunciati. Quelli che vivono nelle province orientali e settentrionali, Kham e Amdo, sono invece decisamente alti, dolicocefali e con gli arti piuttosto sviluppati. Tratti comuni a tutti sono capelli neri e lisci e occhi scuri dalla caratteristica forma “a mandorla”. Contrariamente all’elemento etnico, quello linguistico non ha alcuna parentela con il mondo mongolico. La lingua tibetana presenta piuttosto punti di contatto con il birmano, tanto che gli studiosi parlano di tibeto-birmano, e con alcuni dialetti della regione himalayana. Così come quelle etniche, anche le origini storiche del Tibet sono ancora oggi poco conosciute. Le antiche tradizioni parlano di un’età mitica in cui governava una dinastia di re celesti. Di giorno questi monarchi divini vivevano nel mondo degli uomini e di notte salivano magicamente in cielo tramite una corda che viene descritta come specie di arcobaleno. Secondo le cronache tibetane, governavano fino a quando il loro primogenito imparava a cavalcare . Allora il giovane assumeva i poteri dinastici e il vecchio re moriva, tornando definitivamente in cielo.
Il primo di questi monarchi discesi sulla terra viene considerato Nyatri Tsempo che arrivato nella valle del fiume Yarlung (Tibet centrale), vi insediò la omonima dinastia. Pare che prima dell’arrivo del sovrano i tibetani abitassero in caverne e ripari naturali. Nyatri Tsempo fece compiere un passo decisivo all’evoluzione del popolo tibetano edificando il primo palazzo, il Yumbulagang. Nyatri Tsempo e i suoi primi sei successori, salendo al cielo al momento della morte, non lasciavano spoglie mortali e quindi non c’era la necessità di costruire monumenti funerari. Fu solo a partire dall’ottavo re, Drigum Tsempo, che la corda magica, in grado di assicurare ai sovrani la soprannaturale ascensione, venne tagliata e i loro cadaveri, dal momento che rimanevano sulla terra, avevano bisogno di una tomba. Il monumento funerario di Drigum Tsempo, che i tibetani chiamano ancora “la prima tomba dei Re”, con la sua presenza visibile, prova che questo sovrano esistette realmente e con lui le vicende del Tibet entrano, se non nella Storia almeno in una sorta di preistoria dove alcuni elementi certi e databili cominciano a emergere dalle poetiche nebbie del mito.
Nella Storia vera e propria il Paese delle Nevi vi entra circa verso il settimo secolo d.C. e in questo periodo presenta i tratti di una società feudale, fortemente gerarchizzata e posta sotto il governo di Songtsen Gampo (noto anche come Tride Songtsen) il trentaduesimo re di Yarlung. Il quale riuscì nell’arduo compito di riunire sotto un unico comando quel variegato mondo di tribù dell’Asia centro-settentrionale che costituiscono l’elemento fondamentale dell’etnia tibetana. Al tempo di questo sovrano quindi, gran parte dell’odierno Tibet centrale è unificato e i suoi abitanti sono in grado di compiere scorribande militari all’interno dello stesso territorio cinese, seminando il panico tra le popolazioni han. Sotto il suo regno. Lhasa, l’unico agglomerato urbano di un certo rilievo, diventa la capitale del Paese. Nel 635 il sovrano sposa la principessa nepalese Bhrikuti Devi (Belsa in tibetano) e nel 641 la figlia dell’imperatore cinese T’ai Tsung, la giovane Wen-c’eng Kung-chu (Gyasa in tibetano). La tradizione racconta che queste due giovani donne portarono in dote, tra altri innumerevoli tesori, anche alcune scritture e immagini sacre buddhiste che rappresentarono i primi elementi di Buddhismo a essere introdotti nel Paese delle Nevi. Il dono più importante fu la statua di Buddha Sakyamuni che faceva parte della dote di Gyasa e che si dice fosse stata benedetta dallo stesso Buddha. Però la vera tradizione spirituale del Tibet continuava ad essere il Bon, una religione con venature sciamaniche.
Tra i meriti attribuiti a Songtsen Gampo c’è la sua determinazione nel voler dotare la lingua tibetana (fino ad allora priva di segni grafici) di una sua peculiare scrittura. Inviò dunque in India un gruppo di eruditi allo scopo di trovare una scrittura adatta. Lo studioso a cui il re aveva affidato il comando dell’impresa, tornò in Tibet solo dopo diversi anni portando una sorta di alfabeto mutuato dalle scritture brahmi e gupta, analoghe al sanscrito, e molto diffuse in quel tempo nei regni dell’India centro-settentrionale e himalayana. L’adozione di una scrittura di derivazione indiana sottolinea con forza il legame culturale che, al di là delle differenze etniche, collega il Tibet all’India, allontanandosi irreversibilmente dall’area cinese.
Songtsen Gampo morì nel 649 e nel 755 salì al trono Trisong Deutsen, il più importante di tutti i sovrani della dinastia di Yarlung, che eredita un impero forte la cui stabilità interna e potenza militare erano state rafforzate dai quattro monarchi che avevano regnato negli oltre cento anni antecedenti. Deciso, audace, spregiudicato, Trisong Deutsen organizza brevi ma efficaci spedizioni che arrivano a colpire e conquistare il cuore dell’impero cinese e costringono l’imperatore del Regno di Mezzo a firmare un umiliante trattato di pace. Inoltre a lui si deve l’effettiva introduzione sul Tetto del Mondo della religione buddhista che, nel volgere di una manciata di secoli, diverrà il principale collante spirituale e culturale dell’intera nazione. Nonostante il parere negativo di molti suoi consiglieri decise di invitare in Tibet alcuni tra i più rinomati maestri buddhisti dell’epoca. Tra questi Santarakshita e Padmasambhava. Il primo, un raffinato erudito dell’università indiana di Nalanda, introdusse l’ordinamento monastico mentre il secondo, grazie alla forza di un incredibile carisma personale, riuscì a superare le numerose resistenze che gli ambienti Bon opponevano alla diffusione della nuova fede. Fu edificato Samye, il primo monastero buddhista e Santarakshita ordinò alcuni monaci tibetani. Ala sua morte (797) la sua politica viene continuata da due dei suoi quattro figli: Muni Tsenpo e Tride Songtsen. Nel 815 sale al trono Ralpachen, terzogenito di Tride Songtsen, che viene generalmente considerato il terzo grande sovrano della dinastia di Yarlung. Egli pose finalmente termine alle interminabili guerre con la Cina e firmò un trattato grazie al quale le relazioni tra Cina e Tibet si normalizzarono. Alla sua morte gli successe il fratello maggiore Langdarma. Acerrimo nemico del Buddhismo che perseguitò con una durezza estrema. Le persecuzioni furono così terribili che un monaco di nome Lhalungpa Pelgy Dorje decise di rompere i voti di non-violenza e uccidere il re. La scomparsa del monarca sanguinario segnò ad un tempo la fine della dinastia di Yarlung e dell’unità politica del Tibet. Quello che per quasi quattrocento anni era stato uno dei più forti imperi dell’Asia si frammentò in una miriade di piccoli principati sovente in guerra tra loro e che per molti secoli rimarranno tali. Il ricordo degli antichi fasti rimase solo nel Tibet occidentale dove si trasferì un ramo della dinastia di Yarlung che diede vita ai regni di Guge e Purang i quali svolsero un ruolo di primo piano nella storia culturale della regione himalayana creando una tradizione artistico-religiosa di altissimo livello (1).
La rinascita dello stato tibetano
Tra la fine del decimo e l’inizio dell’undicesimo secolo un Tibet ormai dimentico dei suoi trascorsi imperiali fu però attraversato da un rinnovato interesse per il Buddhismo. I canali spirituali tra il Tetto del Mondo e l’India tornarono ad aprirsi e un notevole flusso di contatti riprese a scorrere in entrambe i sensi. Maestri indiani vennero a insegnare in Tibet e studiosi tibetani si recarono ad approfondire le loro conoscenze nelle principali università buddhiste dell’India. Nei decenni a cavallo dell’anno Mille si verificò una vera e propria Seconda diffusione della dottrina grazie alla quale il Buddhismo si affermò definitivamente come religione principale e si articolò in numerose scuole. Vennero costruiti in Tibet alcuni tra i suoi più importanti monasteri. Tshurpu, Sakya, Drigung, Talung, Reting e molti altri. E’ l’inizio del tredicesimo secolo a segnare la fine di questo intermezzo sereno della storia tibetana. A nord, in un’immensa area che abbraccia in pratica quasi l’intera Asia centrale, le tribù mongole sono in movimento. Sotto la guida di capi intelligenti e decisi queste popolazioni fiere, bellicose e aggressive stanno assoggettando nazioni e popoli. Perfino la Cina. Nel 1207 Gengis Khan, il capo supremo dei mongoli, manda i suoi emissari a intimare la sottomissione dei tibetani che non hanno altra scelta che quella di arrendersi. Il destino del Tibet sembra dunque segnato ma il nipote di Gengis Khan, Godan si incuriosì a tal punto che volle conoscere di persona alcuni maestri spirituali e invitò alla sua corte il più rinomato, Sakya Pandita, capo della scuola Sakya-pa.
Il rapporto che si stabilì tra il lama ed il khan mongolo fu intenso e complesso. Il primo riuscì a convertire al Buddhismo il secondo che, come segno di devozione, non solo proibì ogni ulteriore incursione dei suoi eserciti sul Paese delle Nevi ma assegnò anche agli abati della scuola Sakya-pa il governo dell’intero Tibet. Questa relazione aveva dunque partorito un Tibet governato da tibetani (gli abati Sakya-pa) e posto sotto la diretta protezione del Khan. Il rapporto continuò con i loro rispettivi successori. Kublai khan, figlio di Godan, fu così affascinato dalla personalità e dalle realizzazioni spirituali di Phagpa, nipote di Sakya Pandita, da conferirgli il prezioso titolo di Precettore Imperiale che equivaleva a quello di sovrano del Paese delle Nevi. La gerarchia Sakya governò il Tibet per circa un secolo ma quando in Cina l’influenza della dinastia Yuan (mongola) cominciò a indebolirsi sul Tetto del Mondo il potere dei Sakya-pa prese a vacillare. E il suo potere terminò del tutto nel 1354. Quando i Ming sostituirono gli Yuan alla guida della Cina venne a cadere quel particolare legame che univa il Tibet a una nazione straniera e il Paese delle Nevi poteva nuovamente considerarsi indipendente a tutti gli effetti.
Il periodo della dinastia Pamotrupa coincise con la nascita di un diffuso senso di identità nazionale che trovò la sua espressione più visibile in una decisa rivalutazione del ruolo degli antichi monarchi di Yarlung. In modo particolare Songtsen Gampo e Trisong Deutsen vennero fatti oggetto di una venerazione quasi religiosa. Ovviamente, soprattutto a livello locale, gli abati dei principali monasteri continuavano a esercitare una notevole influenza sociale che facevano valere stipulando alleanze con questo o quel governatore ma le redini complessive della nazione in questo periodo erano in mani laiche. La caduta, nel 1435, della dinastia Pamotrupa chiude un periodo tutto sommato positivo della storia tibetana che però si avvia verso due secoli convulsi durante i quali una drammatica lotta tra fazioni rivali dilaniò un Paese lacerato e diviso. Altrettanto laico di quello dei Pamotrupa fu il governo dei principi di Rinpung che, per circa 130 anni, governarono il Tibet fino a quando nel 1565 il potere passò nelle mani dei re di Tsang, la terza delle grandi dinastie che regnarono sul Tetto del Mondo fra il XV e il XVII secolo. Tutte avevano esercitato la loro autorità in maniera assolutamente autonoma senza far mai alcun gesto di sottomissione, nemmeno formale, nei confronti degli imperatori cinesi (2).
Dal V Dalai Lama all’influenza Manciù
A partire dalla fine del 1400 comincia ad aumentare l’influenza dei lama di una delle principali linee di reincarnazione della scuola Gelug e Sonam Gyatso, il terzo di questi reincarnati, stabilì una forte relazione con alcune tribù mongole che, sebbene non governassero più la Cina, rappresentavano ancora nell’Asia centrale una notevole forza politico-militare. Altan Kan, un discendente di Gengis, divenne discepolo di Sonam Gyatso e in segno di devozione insignì il suo maestro del titolo di Dalai Lama che da allora in poi contraddistinse tutte le successive reincarnazioni di questi maestri. Ben presto la figura dei Dalai Lama acquistò in Tibet un forte rilievo sociale, oltre che religioso. Il V Dalai Lama, Ngawang Lobsang Gyatso, era un uomo dotato di grandi capacità politiche. E Riuscì ad imporsi come l’unico effettivo antagonista dei re di Tsang che vennero definitivamente sconfitti nel 1642.
Da questo momento le incarnazione dei Dalai Lama cessano di essere solo i rappresentanti di uno dei principali lignaggi della scuola Gelug per divenire invece il simbolo stesso del Paese delle Nevi e di tutti i suoi abitanti, senza alcuna differenza di etnia, posizione sociale o tradizione religiosa.
Gli anni del V Dalai Lama passarono alla storia come sinonimo di buon governo e di stabilità nazionale. Alla sua morte nel 1682, il suo principale collaboratore, Desi Sangye Gyatso la nascose per diversi anni sostenendo di averlo fatto nel timore che non si portasse più a termine l’edificazione del Potala Palace.
Il VI Dalai Lama, Gyalwa Rinpoche, fu una personalità eccentrica e il suo comportamento inusuale venne purtroppo usato come pretesto per l’intervento di forze e potenze straniere negli affari interni del “Tetto del Mondo”. In quegli stessi anni la Cina era teatro di profondi cambiamenti politici che avrebbero avuto nefaste ripercussioni per la storia tibetana dei secoli a venire. I Manciù (Ch’ing in mandarino), una popolazione nord-asiatica di origine extracinese, avevano preso il sopravvento e si erano insediati a Pechino e gettavano sguardi interessati verso gli stati confinanti, primo fra tutti il grande ed indifeso “Paese delle Nevi”. Il secondo imperatore Ch’ing, non volendo esporsi di persona, spinse un feroce e spregiudicato capo mongolo di nome Lhazang Khan ad entrare in Tibet. Il governo legittimo di Lhasa fu deposto e lo stesso VI Dalai Lama posto agli arresti domiciliari. Lhazang Khan offrì il Tibet in dono all’imperatore manciù che ricambiò il favore nominando il mongolo governatore del “Tetto del Mondo”. Dopo essere stato catturato, il VI Dalai Lama fu inviato in Cina dove però non giunse mai. Morì infatti durante il viaggio in circostanze misteriose. Kang Hsi, l’imperatore manciù, inviò in Tibet un esercito potente e ben addestrato a scortare a Lhasa Kalsang Gyatso, il VII Dalai Lama, che era stato riconosciuto e viveva nel monastero di Kumbun, nella regione nord-orientale dell’Amdo. Il VII e l’VIII Dalai Lama non esercitarono un grande ruolo politico ma preferirono dedicarsi alla vita spirituale e la conduzione degli affari dello stato venne affidata ad un Gabinetto (Kashag), costituito da quattro ministri (Kalon) di cui tre erano laici ed uno monaco. Questo assetto legislativo rimarrà in vigore, più o meno inalterato, fino al 1959 (3, 4).
ll “Grande Gioco” e il XIII Dalai Lama
Gli ultimi anni del diciottesimo secolo segnano l’inizio di un lungo periodo di instabilità per il Tibet che nel 1792 poté respingere un attacco delle armate del vicino regno del Nepal solo grazie all’intervento degli eserciti Ch’ing. Nel 1804 muore l’VIII Dalai Lama e l’Impero di Mezzo riprende i suoi tentativi di annettersi il Paese delle Nevi. Nonostante il XI, il X, l’XI e il XII Dalai Lama muoiano tutti in giovane o giovanissima età, il Tibet riesce a trovare la forza di resistere alla pressione manciù e alle ricorrenti aggressioni nepalesi. Pur tra mille difficoltà interne il governo di Lhasa mantiene il controllo della nazione e tenta di barcamenarsi in una situazione geopolitica che si va facendo sempre più complessa. Sono infatti entrati nel “Grande Gioco” asiatico due aggressivi imperi occidentali, la Russia zarista e la Gran Bretagna, ognuno dei quali teme che l’altro possa inglobare il Tibet nella propria sfera d’influenza. Nell’anno del Topo di Fuoco (1876) nasce Thubten Gyatso, il XIII Dalai Lama. Questi, contrariamente ai suoi ultimi predecessori, non solo vivrà a lungo ma riuscirà anche a governare con tale intelligenza e lungimiranza da essere ricordato con l’appellativo di “Grande Tredicesimo“. Nell’anno della Pecora di Legno (1895), il XIII Dalai Lama assunse i pieni poteri e iniziò a guidare il Tibet. Nel 1904 la Gran Bretagna, dopo aver tentato inutilmente per oltre un anno di stabilire relazioni commerciali con il governo tibetano, armò una spedizione militare che al comando del colonnello Younghusband entrò in Tibet e giunse in breve tempo a Lhasa dopo aver sconfitto l’esercito tibetano. Younghusband stabilì alcuni accordi economici e dopo pochi mesi tornò in India con i suoi soldati. All’arrivo delle truppe britanniche il XIII Dalai Lama era partito per un lungo viaggio che lo aveva portato in Mongolia e poi a Pechino dove nel 1908, tra gli altri, incontrò sia il giovane imperatore Kuang-hsu sia l’Imperatrice vedova Tz’u-hsi poco prima che entrambi morissero nel novembre di quell’anno. Nel 1909 il Prezioso Protettore tornò a Lhasa dopo circa sei anni di assenza ma ben presto dovette partire nuovamente, questa volta per riparare in India, poiché il generale cinese Chung-yin era entrato in Tibet e muoveva minaccioso alla conquista di Lhasa. La capitale tibetana venne conquistata facilmente. Per la prima volta nella sua storia il Paese delle Nevi era militarmente conquistato da una potenza straniera. L ’occupazione fu però di breve durata. Nel 1911, travolto dalla rivoluzione di Sun Yat-sen, cade l’impero manciù e la Cina diventa una Repubblica. Sbandati e senza più alcuna effettiva guida militare, i soldati cinesi sono sopraffatti dalla popolazione di Lhasa e si arrendono dopo alcuni giorni di combattimenti. Il Tibet torna a essere governato dal Dalai Lama che rientra trionfalmente a Lhasa il sesto giorno del dodicesimo mese dell’anno del Topo d’Acqua (gennaio 1913). Ma quando, il tredicesimo giorno del decimo mese dell’anno dell’Uccello d’Acqua (17 dicembre 1933), Thubten Gyatso lasciò il suo corpo terreno a causa di un improvviso attacco di polmonite, le idee di modernizzazione e cambiamento morirono con lui (5).
ll XIV Dalai Lama e l’invasione cinese
La classe dirigente tibetana, pensando che la particolare posizione geografica del Paese delle Nevi sarebbe bastata a difenderlo tornò a chiudersi in uno “splendido” isolamento che costerà però caro, pochi anni più tardi, all’intera nazione. Il 6 luglio 1935, nell’anno del Maiale di Legno, nasce a Takster, uno sperduto villaggio della regione orientale dell’Amdo, la 14° incarnazione del Prezioso Protettore. Riconosciuto secondo le tradizionali procedure da una delegazione inviata dal governo tibetano, il bambino viene quindi portato a Lhasa dove il 14° giorno del primo mese dell’anno del Drago di Ferro (22 febbraio 1940) viene formalmente insediato. All’inizio degli anni ’40 il Tibet è un’oasi di pace al centro di un continente sconvolto da guerre e rivoluzioni. La Cina, dove per anni si erano sanguinosamente combattuti comunisti e nazionalisti, cerca ora di resistere come può all’invasione giapponese che appare sempre più irresistibile. Nell’India britannica il movimento indipendentista guidato da Gandhi guadagna terreno minando le basi della dominazione inglese e, a partire dal 1941, il Giappone entra nella seconda guerra mondiale a fianco di Germania e Italia attaccando la base aerea navale statunitense di Pearl Harbour. Nel 1945 il Giappone sconfitto e umiliato dall’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, si arrende alle potenze alleate. Pochi anni dopo (1947) l’Inghilterra è costretta ad abbandonare la sua amata colonia indiana che si divide, in un bagno di sangue, in due stati rivali: il Pakistan musulmano e l’Unione Indiana a grande maggioranza induista. In Cina nel 1949 termina una delle più sanguinose guerre civili che la storia ricordi e il Partito Comunista prende il potere guidato dal suo leader Mao Tsetung. E sarà proprio quest’ultimo evento ad avere enormi e tragiche conseguenze sulla storia tibetana. E’ lo stesso Mao, mentre celebra a Pechino la nascita della Repubblica Popolare Cinese, ad affermare con forza che il Tibet dovrà essere riconquistato alla Madrepatria Cinese e strappato alle “forze imperialiste”. A Lhasa le affermazioni del leader comunista non giungono inaspettate. Il governo tibetano aveva già avuto sentore dei propositi della nuova classe dirigente cinese e aveva, invano, cercato di ottenere la solidarietà internazionale. Ma quell’isolamento che nei lontani e felici anni ’30 era sembrato così “splendido”, si ritorce come un boomerang contro. La Gran Bretagna risponde agli inviati di Lhasa che ormai è fuori dalle vicende politiche asiatiche, gli USA dicono che vedranno cosa si può fare ma poi non faranno nulla, il governo indiano, e soprattutto il suo Primo Ministro Nehru, tutto hanno in mente tranne che guastare i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese e la neonata ONU (diretta discendente di quella Società delle Nazioni a cui il Tibet si era ben guardato dall’aderire) preferisce guardare da un’altra parte.
In questo desolante quadro politico il 7 ottobre 1950 le truppe del potente vicino cinese attaccano la frontiera tibetana in sei luoghi diversi e travolgono facilmente la debole resistenza del suo piccolo esercito. In novembre sono conferiti i pieni poteri al Dalai Lama nonostante abbia solo 16 anni. Mai nella storia il Tibet era stato governato da un Dalai Lama così giovane. Dopo essere penetrato in territorio tibetano, l’esercito cinese non avanzò oltre le regioni nord orientali forse temendo una reazione internazionale. Nell’aprile 1951 il governo del Dalai Lama inviò in Cina una delegazione che era autorizzata a esporre il punto di vista di Lhasa e ad ascoltare le posizioni cinesi ma non poteva firmare alcun accordo. A Pechino però, i tibetani furono sottoposti a minacce di vario genere e venne loro impedito ogni contatto con le autorità di Lhasa. In queste condizioni la delegazione tibetana fu costretta a firmare un trattato in Diciassette Punti secondo il quale il Tibet entrava a far parte della Cina sia pure in condizioni di notevole autonomia. L’esercito comunista poté quindi entrare a Lhasa nel settembre 1951 portando così a termine l’occupazione del Tibet.
Nel suo arduo tentativo di trovare una qualche forma di pacifica convivenza con l’occupante, nel 1954 il Dalai Lama compì una lunga visita di cortesia nella Repubblica Popolare Cinese. A Pechino il leader tibetano ebbe diversi incontri con Mao Tsetung, Ciu En Lai ed altri importanti dirigenti comunisti. Prima di partire per tornare a Lhasa, il Dalai Lama ricordò a Mao, che si disse d’accordo, quanto fosse importante che i cinesi rispettassero le tradizioni sociali e culturali del Tibet come del resto stabiliva lo stesso trattato in Diciassette Punti. Nonostante le assicurazioni ricevute a Pechino, il Dalai Lama trovò in Tibet una situazione estremamente deteriorata. Alle innumerevoli angherie e violenze compiute dai cinesi ai danni della popolazione e dei monasteri, i tibetani avevano risposto dando vita a un vasto movimento di resistenza attivo in pratica in tutta la parte nord-orientale del Paese. Gushi Gangdruk (letteralmente “Quattro fiumi e sei catene di montagne”) era il nome dell’organizzazione guerrigliera tibetana. Secondo stime attendibili alla fine del 1957 circa centomila guerriglieri combattevano per la libertà del Tibet, ma la disparità delle forze in campo non lasciava alcuna possibilità di successo alla pur eroica resistenza tibetana. Infatti i cinesi potevano contare su di un esercito armato di tutto punto,che contava quattordici divisioni per un totale di oltre centocinquantamila uomini. Durante tutto il 1957 e il 1958 alle incursione della guerriglia Pechino rispose colpendo indiscriminatamente la popolazione civile, bombardando villaggi, uccidendo monaci, distruggendo monasteri e passando per le armi tutti coloro che, a torto o a ragione, erano accusati di aver aiutato i partigiani. La potente macchina bellica maoista fu responsabile in quegli anni di un vero e proprio genocidio. Il potere dello stesso Dalai Lama in pratica non esisteva più e il campo d’azione del suo governo si limitava ai problemi di ordinaria amministrazione mentre per tutte le questioni importanti erano i generali dell’Armata Rossa a decidere e comandare. Nel volgere di poco tempo anche a Lhasa la tensione divenne intollerabile. All’inizio del marzo 1959 mentre nella capitale tibetana si celebrava il Monlam Chenmo, la Festa della Grande Preghiera fil Dalai Lama venne invitato a partecipare ad uno spettacolo che si sarebbe tenuto al quartier generale delle truppe cinesi. In realtà più che di un invito si trattò di una vera e propria convocazione dal momento che gli fu chiesto di venire senza l’usuale scorta e accompagnato solo da funzionari disarmati. Il Dalai Lama, nonostante il parere negativo dei suoi ministri decise che un suo rifiuto avrebbe ulteriormente irritato i cinesi e quindi accettò di recarsi negli insediamenti militari cinesi alle condizioni che questi avevano posto. Ma quando i tibetani appresero la notizia decisero che non avrebbero permesso che il loro leader si consegnasse inerme nelle mani dei militari cinesi. Tenzin Gyatso era quindi in una difficilissima posizione. Da un lato sapeva bene che i timori della sua gente erano più che fondati, dall’altro si rendeva perfettamente conto che nulla avrebbero potuto contro il micidiale apparato bellico dei loro nemici. Decise quindi di fuggire sperando in questo modo di calmare le acque, far scendere la tensione sotto il livello di guardia e poi riprendere la strada del dialogo e delle trattative.
La notte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un piccolo gruppo di persone tra cui i suoi famigliari e alcuni ministri uscì segretamente dal Palazzo d’Estate per cercare rifugio nelle zone meridionali del Tibet ancora non del tutto controllate dai cinesi. Purtroppo le speranze del Dalai Lama che una sua partenza avrebbe potuto sistemare le cose si dimostrarono vane. La notte tra il 19 e il 20 marzo cominciò la battaglia di Lhasa. I cinesi bombardarono il Norbulinka, probabilmente sperando che lil Dalai Lama potesse morire sotto le bombe, e poi attaccarono la città. Vennero colpiti il Potala, il Jokhang, le abitazioni. La gente combatteva per le strade una lotta eroica ma impari. Le donne e gli uomini di Lhasa affrontavano un esercito moderno ed equipaggiato di tutto punto, armati con vecchi fucili, coltelli e bastoni. Il governo tibetano venne sciolto e tutte le autonomie riconosciute dal Trattato in Diciassette Punti abolite. Il Dalai Lama riuscì a stento a mettersi in salvo. Scortato da un pugno di uomini della resistenza raggiunse dapprima Lhuntse Dzong, una località vicina al confine indiano e poi l’India dove giunse il 31 marzo dopo un viaggio che in tutto era durato due settimane e durante il quale aveva percorso oltre un migliaio di chilometri. Il governo di Nuova Delhi concesse immediatamente asilo politico al Dalai Lama che dall’India chiese aiuto alla comunità internazionale per il suo martoriato Paese.
Il Tibet occupato
Intanto la Cina portava a termine la repressione della resistenza tibetana e il volto del “nuovo” Tibet cominciava a prendere forma. Il 5 aprile 1959, accompagnato da una ingente scorta militare cinese, il Panchen Lama fu fatto arrivare a Lhasa per esservi insediato come presidente del Comitato Autonomo della Regione Autonoma del Tibet, una organizzazione creata dagli stessi cinesi. In pratica il Tibet venne smembrato e le sole regioni centrali di U-Tsang formarono la Regione Autonoma Tibetana (creata ufficialmente nel 1965) dal momento che il Kham e l’Amdo divennero parte delle province cinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. Così ridotto a un’area abitata da non più di due milioni di persone il Paese delle Nevi doveva essere, nelle aspettative dei suoi nuovi padroni, pronto per la normalizzazione e l’edificazione di una società socialista. Il forcipe che avrebbe dovuto facilitare questo non facile parto fu individuato dalle autorità cinesi nelle cosiddette “Tre educazioni” (alla coscienza di classe, al cambiamento socialista ed alla scienza e alla tecnica) e nelle “Quattro Pulizie” (del pensiero, della storia, della politica e della economia) che consistevano in una martellante campagna politica e poliziesca destinata a “ripulire” il Tetto del Mondo dai “reazionari, dalle armi illegali e dai nemici del popolo”. L’intera società tibetana venne divisa in sei classi secondo i rigidi schemi dell’ortodossia maoista. Da un giorno all’altro gli abitanti del Tibet scoprirono di essere “feudatari”, “agenti dei feudatari”, “ricchi”, “classe media”, “poveri” e “reazionari”. Le classi “media” e “povera” vennero considerate quelle da privilegiare mentre le altre subirono un vero e proprio martirio. Ben presto però i cinesi si accorsero che anche la grande maggioranza degli appartenenti alle classi “media” e “povera” non ne volevano sapere del governo di Pechino e quindi molti tibetani “medi” e “poveri” traslocarono nella più scomoda di tutte le classi, quella dei “reazionari ”.
Ben presto i generali cinesi si resero conto che oltre il 90% dei tibetani era ancora fedele al Dalai Lama e decisero quindi che per rendere la popolazione più disponibile ad accettare le “Riforme Democratiche” erano necessarie delle “sessioni di lotta ” collettive, i famigerati thamzing, dei veri e propri linciaggi pubblici degli elementi “controrivoluzionari ” a cui tutti dovevano partecipare attivamente. I monasteri vennero chiusi o distrutti e i monaci dispersi, fu proibita e perseguitata ogni manifestazione di fede religiosa, anche le più innocue espressioni di dissenso vennero represse e i dissidenti rinchiusi nei numerosi campi di lavoro forzato aperti in tutto il Paese. Di fronte a questo drammatico stato di cose il Panchen Lama, che era rimasto in Tibet nella speranza di poter svolgere un ruolo di mediazione tra il suo popolo e le autorità cinesi, scrisse a Mao una lunga lettera in cui criticava severamente l’operato cinese in Tibet e chiedeva un immediato cambiamento di rotta. La risposta di Pechino non si fece attendere. Il Panchen Lama fu immediatamente arrestato, processato e sottoposto a thamzing insieme al suo tutore e ai suoi più stretti collaboratori. Nessuna umiliazione venne risparmiata al Panchen Lama che dopo il processo sparì nelle carceri cinesi da cui poté riemergere solo nel 1978. A completare l’opera di annientamento della cultura tibetana arrivò nel 1967 la Rivoluzione Culturale. Di quasi seimila monasteri e tempi se ne salvarono solamente tredici, tra cui il Potala a Lhasa, il Kum Bum a Gyantse, il monastero di Tashilumpo. Le Guardie Rosse distrussero statue, dipinti, affreschi, edifici antichi di centinaia e a volte migliaia di anni producendo una ferita irreparabile alla civiltà tibetana. Ovviamente la furia dei giovani maoisti non si limitò alle cose ma prese di mira anche le persone e i tibetani passarono attraverso un inferno.
Nella seconda metà degli anni ’70, con la scomparsa di Mao e l’ascesa al potere di Deng Tsiao Ping, molte cose cambiarono nella Cina Popolare e il nuovo corso denghista comportò anche un diverso atteggiamento riguardo al Tibet. Il sistema di rigida collettivizzazione e delle comuni venne definitivamente smantellato. Alcuni monasteri furono parzialmente riaperti e qualche monaco poté essere nuovamente ordinato dai quei pochi che erano sopravvissuti. Nel 1980 Hu Yao Bang, allora segretario generale del Partito Comunista Cinese, visitò il Tibet ed essendo rimasto sconvolto da quello che aveva visto promise ai tibetani un rapido cambiamento della situazione. Contatti informali si stabilirono con il Dalai Lama che tra il 1979 e il 1982 poté inviare in Tibet alcune sue delegazioni. Quello che i rappresentanti di Dharamsala trovarono fu un Paese umiliato, sconvolto, ferito. Ma il ricordo del vecchio Tibet indipendente era ancora ben vivo nei cuori del popolo tibetano che accolse i delegati del Dalai Lama con un entusiasmo che non piacque alle autorità cinesi le quali nel 1982 dichiararono chiusa la breve stagione delle delegazioni.
Tibet anni ’80/’90
L’inizio degli anni ’80 segna anche l’apertura del Tibet al turismo internazionale. Dapprima solo a pochi viaggiatori selezionati e rigidamente inquadrati in seguito anche a gruppi più numerosi e meno controllabili di turisti, viene data la possibilità di visitare il Tetto del Mondo che sembra essere alla vigilia di importanti cambiamenti. Il turismo portò nel Paese delle Nevi migliaia di stranieri che il più delle volte simpatizzavano apertamente per la causa e le ragioni del popolo tibetano.
Il 21 settembre 1987, davanti alla Commissione per i Diritti Umani del Congresso statunitense, il Dalai Lama espose un Piano di Pace in Cinque Punti che costituiva una seria e articolata proposta per intavolare delle trattative su basi realistiche con il governo di Pechino per risolvere il problema del Tibet. Purtroppo la dirigenza cinese rispose negativamente al Piano del Dalai Lama e a Lhasa esplose la collera della gente. Il 29 settembre e il 1° ottobre migliaia e migliaia di persone diedero vita a manifestazioni di protesta che la polizia represse con inaudita violenza. Queste dimostrazioni segnano l’inizio di una nuova stagione della resistenza delle donne e degli uomini del Paese delle Nevi e da allora grandi e piccole manifestazioni avvengo quasi quotidianamente a Lhasa e in molte altre località del Tibet. Il 5 marzo 1988, al termine delle celebrazioni per il capodanno, a Lhasa monaci e laici iniziano a scandire slogan contro l’occupazione cinese e l’esercito apre il fuoco sulla folla in tumulto. Ore di scontri davanti al tempio del Jokhang si concludono con un tragico bilancio. Ventiquattro laici e dodici monaci sono uccisi, alcuni a colpi di manganello, davanti e dentro al Jokhang. In seguito parti di un video girato dalla stessa polizia cinese, contenente alcune terribili immagini di questo massacro, vennero trafugate da membri della resistenza tibetana e riuscirono a raggiungere il mondo esterno. Era il primo inoppugnabile documento visivo di quale sorte attende in Tibet chi osa dissentire. Mntanto il 15 giugno 1988 il Dalai Lama presenta nella sede del Parlamento Europeo di Strasburgo una ulteriore elaborazione del suo Piano di Pace in cui si dichiara disposto a rinunciare all’indipendenza in cambio di una effettiva autonomia di tutte e tre le province tibetane.
In questo clima rovente, il 28 gennaio 1989 muore, in circostanze misteriose, il 10° Panchen Lama che si trovava nel suo monastero di Tashilumpo per celebrare alcuni riti. Ufficialmente la causa del decesso fu attribuita a un infarto ma il fatto che solo pochi giorni prima della sua scomparsa il Panchen Lama avesse rilasciato a un giornale cinese una intervista in cui accusava apertamente Pechino di essere responsabile di molti errori in Tibet, fece ritenere ai tibetani che il Panchen Lama fosse stato avvelenato dai cinesi timorosi di una sua fuga all’estero. Il 5 marzo oltre diecimila persone scendono in piazza a Lhasa dando vita alla più imponente manifestazione dai tempi dell’insurrezione del 1959. Per due giorni si scontrano a più riprese con l’apparato repressivo di Pechino riuscendo a tenere il centro di Lhasa per quasi un’intera giornata. La risposta cinese a queste dimostrazioni è durissima. Secondo fonti non ufficiali diverse centinaia di tibetani perirono negli incidenti e nella repressione che seguì. Il 7 marzo viene imposta a Lhasa la legge marziale che rimarrà in vigore il 30 aprile del 1990.
Questa nuova ondata di manifestazioni fa crescere nel mondo, sconvolto anche per l’eccidio di piazza Tienanmen, la simpatia per il popolo tibetano e la sua lotta civile e nonviolenta. Il conferimento al Dalai Lama del Premio Nobel per la Pace 1989, è il segno più evidente di questo interesse. A partire dal 1990 il Dalai Lama intensifica i suoi viaggi e sempre più spesso incontra capi di Stato, di governo e parlamentari. E il suo messaggio viene recepito in modo particolare dal Parlamento Europeo che dopo aver approvato numerose risoluzioni di condanna delle violazioni dei diritti umani in Tibet, il 13 luglio 1995 vota con schiacciante maggioranza un documento in cui si considerata il Tibet uno stato sotto occupazione illegale. E lo stesso Parlamento Europeo, nella sua sede di Strasburgo, accoglie ufficialmente e con grande calore il Dalai Lama il 23 e il 24 ottobre 1996.
Nel mondo intanto la questione del Tibet comincia ad essere sostenuta da un numero sempre crescente di persone. Negli USA tre grandi Tibetan Freedom Concert a cui partecipano centinaia di migliaia di giovani rendono popolare la lotta del popolo tibetano tra i teenagers, nei colleges e nelle università. In Europa il 10 marzo del 1996 si tiene a Bruxelles una affollata manifestazione internazionale per la libertà del Tibet che sarà replicata con altrettanto successo a Ginevra nel 1997 e a Parigi nel 1998 anno in cui nelle sale di tutto il mondo escono diversi film sul Tibet e sul Dalai Lama. Nel dicembre 1997 la Commissione Internazionale dei Giuristi (C.I.G.) di Ginevra pubblica un secondo documento sul Tibet che mette a nudo la gravità della situazione e chiede alle Nazioni Unite di intervenire. In particolare la C.I.G. chiede all’ONU di far discutere all’interno dell’Assemblea Generale il caso tibetano, di nominare un Inviato Speciale per indagare sulle effettive condizioni di vita dei tibetani e di attivarsi per far svolgere in Tibet un referendum con il compito di accertare quali siano i veri sentimenti del popolo tibetano riguardo alla situazione del loro Paese.
E poiché il popolo tibetano in Tibet non può parlare se non a rischio della vita o della prigione, gli esuli in India decidono di dar loro la voce. Il 10 marzo 1998 a New Delhi sei militanti della Tibetan Youth Congress (cinque uomini e una donna) iniziano uno sciopero della fame ad oltranza per sostenere le richieste della Commissione Internazionale dei Giuristi. Al 49° giorno di digiuno la polizia indiana interviene ospedalizzando con la forza i sei e impedendo loro di continuare fino all’estremo sacrificio. Sconvolto per questa ennesima prevaricazione contro il suo popolo, Tupthen Ngodup un tibetano di 50 anni che aveva accudito i digiunatori fin dall’inizio della loro lotta, si dà fuoco per protesta e muore dopo pochi giorni con oltre il 95% del corpo gravemente ustionato. La foto di Tupthen Ngodup avvolto dalle fiamme fa in poche ore il giro del mondo …
1. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=64&Itemid=77
2. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=65&Itemid=78
3. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=66&Itemid=79
4. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=67&Itemid=80
5. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=68&Itemid=81
6. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=69&Itemid=82
7. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=70&Itemid=83
8. http://www.italiatibet.org/index.php?option=com_content&view=article&id=71&Itemid=84
Il testo che segue è una sintesi di quanto, a cura dell’Associazione Italia Tibet, è stato tratto dal libro di Piero Verni (Il Tibet nel cuore). Per la versione completa, si rimanda alle pagine del sito (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8).