Hong Kong e il valore dei sindacati: oltre le proteste di strada
Dopo aver ampiamente trattato le proteste causate dalla legge sull’estradizione e i più recenti avvenimenti della legge sulla sicurezza nazionale (anche con Nathan Law), questa volta ripercorriamo le vicende recenti di Hong Kong dal punto di vista di un movimento affine alle manifestazioni di strada, in grado di lavorare anche durante la pandemia da Coronavirus: i sindacati.
I sindacati pro-democrazia di Hong Kong: dalla strada all’unità di intenti
Tra il 2014 e il 2015 abbiamo assistito alla nascita di movimenti di protesta che, purtroppo, non riuscirono a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Forse a causa di una frammentazione di motivazioni che non hanno mai permesso di realizzare un vero e proprio blocco unico. Anche se ricordiamo molto bene i 79 giorni delle proteste della Rivoluzione degli Ombrelli in favore del suffragio universale. E allora perché oggi sembra di essere di fronte a una macchina granitica?
In un recente e ricco approfondimento di Anita Chan per Made in China Journal è stato sottolineato quanto le esperienze delle proteste del passato siano state formative per realizzare un terreno fertile pro-democrazia tra il 2019 e il 2020. Innanzitutto, Chan sottolinea che quanto portato avanti nel giugno 2019 ha dimostrato una “incrollabile solidarietà“. A riprova di ciò, c’è il fatto che le differenze tra i manifestanti sono state messe da parte e le numerose istanze dei cittadini sono state sintetizzate nello slogan “Cinque richieste. Non una di meno”.
In questo contesto, hanno giocato un ruolo fondamentale anche gli aspetti comunicativi, come il motto “I fratelli scalano la montagna; ognuno fa il proprio meglio” e l’assenza di veri e propri capi che decidessero la direzione del movimento. Tutto ciò, però, ha fatto nascere l’esigenza di combattere per la democrazia su due diversi fronti: il primo, quello della strada, e quindi manifestazioni e interventi di piazza; il secondo, su una linea decisamente più ‘amministrativa’ e formale, con l’intento di crearesindacati piccoli e indipendenti in cui unire le richieste e le speranze dei manifestanti.
I primi passi dei sindacati pro-democrazia
La nascita di sindacati indipendenti è stata una mossa condivisa per via delle zero concessioni ottenute dall’amministrazione di Hong Kong con le manifestazioni di piazza. Il pensiero è stato abbastanza elementare: se da sola la piazza non funziona, tanto vale provare anche sul campo formale. A Hong Kong, però, esiste già una federazione sindacale pro-democrazia: la Hong Kong Federation of Trade Unions (HKFTU), che conta 253 sindacati affiliati e 420 mila membri. Anche se in gran parte controllata dal governo della Cina continentale, si prefigura come il contraltare della All-China Federation of Trade Unions, la federazione sindacale riconosciuta legalmente dal Partito comunista cinese, a cui la sigla è subordinata.
Fin dall’inizio delle proteste del 2019, la HKFTU non ha voluto giocare un ruolo di spessore, nonostante i piccoli e nuovi sindacati (composti per lo più da persone che arrivano dalla finanza, dalla contabilità, dalla medicina, dalla salute, dai servizi sociali e dall’istruzione) chiedessero loro una mano o un consiglio su come evolvere certe dinamiche amministrative. Anche perché, già nell’agosto del 2019 qualcosa andava discusso. Le prime manifestazioni avevano raccolto molte adesioni, ma successivamente diverse persone avevano timore delle ritorsioni da parte dei propri superiori in azienda. Così, venne formato il “Comitato di preparazione della lotta inter-settoriale” e nacquero le prime discussioni sulla necessità di formare o meno dei veri e propri sindacati, aiutati anche dal “Fronte unito dei triplo sciopero da 2 milioni di persone“.
Insomma, la volontà di rivolgersi all’HKFTU era palpabile. La prima mossa fu la richiesta di corsi e seminari sul mondo del sindacalismo e del diritto del lavoro (tema che si aggiunse molto presto nei filoni pro-democrazia), visto che in molti non conoscevano le materie in oggetto. C’è da aggiungere, inoltre, che ad Hong Kong gli scioperi politici sono illegali, e quindi i pro-democratici dovevano comprendere al meglio come districarsi in mezzo a questa giungla.
E se la risposta fosse la politica di Hong Kong?
Già verso la fine di novembre 2019, le organizzazioni sindacali nascenti stavano progettando un loro intervento nella politica di Hong Kong, soprattutto dopo le elezioni distrettuali, vinte dal campo pro-democratico per 17 consigli su 18. Per avere voce nel campo politico, però, un sindacato deve essere registrato almeno da un anno. I primi movimenti risultano nati tra ottobre e novembre 2019 e quindi c’è speranza per le elezioni del 5 settembre 2021 (prorogate di un anno rispetto alla prima data, 6 settembre 2020, per i crescenti casi da Coronavirus).
A dare speranza ai sindacati, ci sono i numeri: dal giugno 2019 al febbraio 2020 ci sono state 735 richieste per la registrazione di un nuovo sindacato, mentre nei primi tre mesi del 2020 ci sono state ben 1578 nuove richieste, rispetto alle 10-30 degli anni precedenti. Prima, però, bisognerà constatare che effetto avrà la legge sulla sicurezza nazionale sul valore dei sindacati pro-democrazia. Se, come sembra, l’ex colonia britannica diventerà sempre più un far west, come potrà districarsi il loro operato?
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Articolo di Angelo Andrea Vegliante