giovedì 21 agosto
BANGALORE
Si chiamano tutti quanti Tenzin … i ragazzini della band e suonano in condizioni catastrofiche. Ospiti, per le prove, di uno scantinato del TCV Hostel e senza nemmeno gli strumenti adatti. La loro musica è proprio agli esordi ma sembrano animati da una grande determinazione e voglia di andare avanti. Grazie a tutti e quattro questi simpatici ragazzi per l’intervista rilasciata e per aver voluto suonare dal vivo le loro due composizioni a favore del Tibet!
Di pomeriggio partenza dall’aeroporto di Bangalore, per Delhi dove arrivo alle 20.
venerdì 22 agosto
DELHI
Tutta la mattina e parte del pomeriggio trascorrono nel disbrigare pratiche burocratiche per nuove complicazioni insorte che mi impediranno di raggiungere il Bhutan. Pazienza. Si vede che, anche quest’anno, non era destino. Niente di peggio, comunque, che passare alcune ore in un Ufficio Indiano. Il Foreigners Regional Registration Office, in particolare, che rende ragione del termine “bolgia infernale”. La fila inizia alle 12 e termina alle 16,30. Tra spintoni, gente che si mette a piagere (!), lunghi intervalli (degli impiegati) per il pranzo e per il the. Mentre alcuni Officers, in teoria addetti al controllo finale delle pratiche, si godono beatamente le gare olimpiche, su un grande televisore tutto scassato, nella stanza centrale del FRRO, del tutto incuranti delle centinaia di persone in attesa.
Raggiungo, poi l’Ambasciata Cinese e la trovo del tutto avvolta in una spirale di filo spinato. I poliziotti, disseminati ovunque e con fucili e bastoni in spalla, rendono del tutto impossibile documentare il ridicolo con immagini adeguate. Arrivata davanti all’ingresso, protetto e nascosto da due camion della Polizia, mi avvicino per quanto possibile. In un attimo sono accerchiata e vengo martellata di domande. Tra cui anche la richiesta di documenti e di Visa … Chiedo, a mia volta, spiegazioni, facendo la parte della turista ingenua e curiosa.
Un poliziotto più gentile degli altri mi dice che il filo spinato serve a “proteggere l’Ambasciata dai Tibetani che hanno manifestato nei giorni scorsi” (parole testuali). Il collega, invece, insiste a volermi portare dentro gli Uffici per dare spiegazioni al suo capo ma alla fine sono io che passo alle minacce e mi lasciano andare. Forse, semplicemente, per stanchezza al termine di una giornata troppo calda e noiosa.
Raggiungo così Jantar Mantar e, di fronte alla piccola tenda dei 6 digiunatori, ritrovo il clima giusto e una sorta di pace irreale.
Il gruppo (il terzo dall’inizio dello sciopero) è composto da quattro monaci e due civili. Uno più determinato e commovente dell’altro.
Tashi Gyatso è il più forte del gruppo. Si alza anche dal letto per sedere una decina di minuti su una sedia di fronte alla tenda e tranquillizare gli astanti. Ha 31 anni e faceva parte dei supporter all’inizio dello sciopero. E’ stato in prigione in Tibet perchè in possesso di una foto del Dalai Lama e anche a Delhi è stato picchiato dalla polizia. Vive a Mundgod nel Drepung Gomang Monastery.
Dhondup Tsering è il più debole. Ha 63 anni ed è completamente disidradato. Il che non gli impedisce di aprire ogni tanto gli occhi e di regalare un sorriso di gratitudine alle persone che sono venute a salutarlo. La sua famiglia vive a Bylakuppe e lui ha partecipato a molte altre manifestazioni di sostegno alla causa del Tibet. E’, sinora, il più anziano dei 18 volontari che si sono avvicendati nel digiuno.
Thupten Tsewang è il più giovane. Ha quasi 20 anni e vive al Sera Jey Dema Khamtsen Monastery. Ha, per me, un potere di attrazione quasi ipnotico. E i quindici minuti che passiamo in silenzio, con le mani strette strette, insieme, mi sembrano i più brevi e i più lunghi che abbia mai trascorso. Fa fatica anche a respirare ma prende con energia la mala che gli offro sfilandomela dal polso e la indossa con un sorriso. Un sorriso lunghissimo che continua a seguirmi fino a che esco dalla tenda e che, nella mia mente, mi segue ancora.
Jampa Kelsang è il più ferrato. Ha 33 anni ed è al suo secondo sciopero della fame. Infatti era già tra i digiunatori nel 1998. Oltre ad aver partecipato alla March to Tibet nel 1995 e a quella recente organizzata dalle 5 NGO’s. E’ nato a Pokara e vive al Sera Jey Tsangpa Khamtsey Monastery.
Tsering Tashi è il “ragazzo più vecchio”. Ha, infatti solo 21 anni, ma ne dimostra molti di più. Sarà lo stato di prostrazione in cui si trova, o i tanti lavori e spostamenti che ha fatto nella sua vita. Passando dal Ladakh alla Mussorie Homes School, a quella di Deheradun. Anche lui ha partecipato attivamente a tante iniziative a favore del Tibet.
Nawang Samden è il monaco più riservato. Anche lui al suo secondo sciopero della fame, il primo di 72 ore a Mumbai. Ed ha anche partecipato alla March to Tibet organizzata dalle 5 NGO’s. Ha 26 anni e viene dall’Amdo. Attualmente vive nel Drepung Gomang Monastery.
Colpisce molto la cura reverente, delicata e colma di gratitudine dei volontari che si alternano accanto ai sei digiunatori. E che fanno il poco (e il tanto) che possono. Rinfrescano la loro fronte, massaggiano i muscoli indolenziti e stanchi. E, soprattutto, parlano. Sussurrando, per non disturbare, parole di conforto che non attendono alcuna risposta.
Di fronte alla tenda, intanto, una piccola folla siede in silenzio. Tibetani venuti dalle parti più disparate del paese. Stranieri, Indiani. Tutti concentrati a dare il loro contributo, la propria presenza, in segno di gratitudine e di supporto.
I molti monaci e monache presenti danno poi il via a una “candle march” cui si accodano tutti i civili. E il suono dela loro preghiera sovrasta il brusio della folla e raggiunge l’interno della tenda. Insieme alla luce delle tante candele che al termine, dalla loro mani, si trasferiscono in terra a formare simboli e scritte. A metà pomeriggio un Lama fa visita alla tenda. Viene da Dharamsala in rappresentanza di tutti i monaci e offre khata ai digiunatori, dopo aver pregato di fronte all’immagine del Dalai Lama.
Prima di andare via parlo con Tsewang Rigzin, Presidente del Tibetan Youth Congress e intervisto Dhondup Dorjee, VicePresidente del TYC che fa una sintesi degli eventi trascorsi e riferisce in merito ai progetti futuri, soprattutto dopo il termine dei Giochi Olimpici. Confermando anche, che nei prossimi giorni i digiunatori sono decisi a resistere e che continuranno le “candle march” e la presenza dei supporter di fronte alla tenda.
Nell’aria c’è una rabbia tangibile, un dolore lunghissimo e profondo. Non solo per tutte le violenze subite e in corso, ma anche per questi uomini che vorrebbero lasciarsi morire pur di offrire un contributo alla causa del loro paese. Straordinariamente, però, si respira un’aria di pace. Non di sottomissione e di impotenza. Ma proprio di pace. Quella che nasce dalla consapevolezza di un diritto violato che dovrà, per forza, trovare la sua ragione.
sabato 23 agosto
DEHERADUN
La giornata inizia presto, con il volo per Dehradun, in partenza alle 9,30 e arrivo alle 10,30 all’aeroporto locale. Un’altra oretta di macchina e mi viene incontro una cittadina caotica e disordinata. Dove l’Hotel Pacific sembra un po’ fuori misura. Una minima tentazione di visitare Rishikesh (che dista solo una ventina di chilometri) scompare subito, al pensiero delle stradine brulicanti di guru della meditazione e di procacciatori di clienti.
Aspetto, quindi, tranquilla nella hall dell’albergo, l’arrivo di Tsering. Che, dopo 3 o 4 telefonate quasi incomprensibili, compare all’improviso e mi lascia spiazzata, oltre che commossa. Niente a che vedere con quanto mi aspettavo dalla voce profonda e dulta che avevo ascoltata al telefono. E’ rimasto il ragazzino di sempre. Con la sola differenza di una macchia scura di capelli in più e di un po’ di chili di meno. E’, comunque, bellissimo. Con gli occhi a mandorla un poco sfuggenti e una timidezza che non ricordavo. Piano piano, si scioglie e mi racconta, con grande eccitazione, le esperienze positive della vita militare: il karate, gli esercizi fisici e i lanci dal paracadute …
Sulla preoccupazione di cosa accadrà “dopo” glissa un po’, quasi a volermi proteggere dalla sua stessa preoccupazione. Mi colpisce che, parlando di Nyima, usi le stesse parole del maestro (“non è una buona decisione lasciare il monastero, se sei monaco non hai nulla di cui preoccuparti”) e mi domando se sia un’identità di vedute o un messaggio pilotato, nel tentativo di convincermi. Poi, arrivata l’ora del suo pulman e del mio volo, ci lasciamo quasi di fretta, con un leggero imbarazzo, mentre un dolore incerto ci vela lo sguardo e ci incrina la voce. Ma è solo un attimo, preferiamo, tutti e due, ricordarci con un sorriso.
Al ritorno, in macchina sulla strada dall’aeroporto, incontro una gran folla di persone in marcia, con luci fragorose, costumi di tutti i colori e carri che trasportano statue di cartapesta. Si prepara la cerimonia di domani: anniversario della nascita di Lord Bhudda che verrà festeggiata in tutti i templi induisti. Forse mi lascerò trascinare al Birla Temple, così, giusto per dare un’occhiata.
Avrei voluto esserci. Quando la Polizia, alle 16,30, ha forzatamente condotto in Ospedale i 6 digiunatori, arrivati all’ottavo giorno dello sciopero e li ha portati di forza al Ram Manohar Lohia Hospital. Avrei voluto vedere non attraverso le foto i loro i pugni chiusi. In particolare quelli di Dhondup che, fino all’ultimo, non ha voluto mollare e ha cercato di “gridare” slogan anche se non aveva più la voce.
E quelli di Tashi Gyatso che, dopo essere scappato dalla tenda vi è ritornato per continuare il suo sciopero, anche se solo per un altra simbolica mezzora. Come avrei voluto guardare negli occhi le forze dell’ordine che, arrivate su un veicolo non ufficiale, hanno trasportato via i digiunatori senza nemmeno un’ambulanza e anche 9 supporter, comprese 5 donne …
domenica 24 agosto
DELHI
Il Ram Manohar Lohia Hospital è barricato. E con la scusa che è domenica, dicono che non è possibile entrare … Domani (forse) sarà possibile avere il permesso di ingresso che, qui dicono sia riservato solo ai parenti (?).
Quindi siccome l’appuntamento a Jantar Mantar è fissato per le 14, faccio una visita al Birla Temple. Dove il clima è tutt’altro. Sembra di essere fuori dal mondo. E di essere dentro un film, con bambini mascherati da Krishna, ottava incarnazione di Vishnu, di cui si festeggia oggi l’anniversario della nascita. Il clima è festoso e devoto. E la folla straripante di visitatori si snoda come un serpente multicolore fra le tante stanze sacre del Tempio.
Arrivo a Jantar Mantar nell’ora prevista e mi si stringe il cuore. Nel vedere la tenda vuota, con il telo abbassato a metà a coprirne l’ingresso. E con le tante persone che siedono in silenzio di fronte, in attesa.
lunedì 25 agosto
DELHI
Alle 14,30 l’appuntamento è di fronte all’Ambasciata cinese. Ma le condizioni sono impari. I dimostranti sono 11 e, anche se incatenati tra di loro per far fronte più compatto, possono solo gridare qualche slogan e non riescono nemmeno a distendere lo striscione. Vengono portati tutti alla Stazione di Polizia, dopo appena una mezz’ora di lotta. Che si svolge, purtoppo, tra una discreta indifferenza dei pochi passanti.
Per quanto mi riguarda già giorni addietro mi sono fatta “conoscere” dai poliziotti dell’Ambasciata e, inoltre, il non avere documenti non facilita la mia posizione. Quindi, anche se con molto dispiacere, mi tengo un po’ in disparte, pensando al volo che mi aspetta domani …
Ritengo, almeno, di fare cosa utile tornando al Ram Manohar Lohia Hospital per salutare i sei digiunatori. Nonostante sia accompagnata anche da un tibetano, trascorrono circa un paio d’ore prima che si possa venire a capo della faccenda. Sorvolo sulle condizioni igieniche dell’ospedale, difficili anche da immaginare e del tutto simili a quelle di una discarica … Mi soffermo solo su quelle organizzative. Nessuno sa dove siano i 6 digiunatori! Nè il personale amministrativo, nè i poliziotti, nè i dottori, nè le infermiere. Setaccio, a vuoto, tutti i reparti di tutti i piani, alla ricerca dei “Tibetani perduti”. Oltre a chiamare varie volte il TYC dove Dhondup Dorjee mi dice di non sapere in quale reparto siano ricoverati (?).
Alla fine un’infermiera si avvicina un po’ intimidita, dice di averli visti quando sono arrivati e che si dovrebbero trovare ancora all’Emergency. Dove ero già stata, inutilmente. E dove, comunque, ritorno. Chiedendo, stavolta, alla caposala, di mostrarmi il registro di ingresso. Dal quale risultano effettivamente accettati – con tanto di nome e di età – ma anche usciti! Cinque di loro (i monaci) sono stati dimessi perché in “ottime” condizioni di salute (?) e il sesto, l’anziano Dhondup Tsering, è “scappato” dall’Ospedale per proprio conto. Ovviamente nessuno del personale ha idea di dove, al momento, si possano trovare.
Con toni un po’ meno concilianti chiedo, allora, a Dhondup Dorjee di darmi un’indicazione certa e, verso le 20, finalmente appuro che sono stati trasferiti al Tirat Ram Hospital. Dove andrò domani. Sono curiosa di capire le ragioni di tanta “reticenza” … Semplice disorganizzazione indiana? Non credo. Tentativo di proteggerli? Da chi? A quale scopo? E mi domando come sia potuto “scappare” Dhondup Tsering se, solo due giorni prima, non riusciva nemmeno a stare seduto. Volendo escludere una simulazione, non so trovare una risposta logica a tutto questo. Forse è proprio vero che in India la logica procede sempre per associazioni casuali e per grandi salti.
Partirò domani di sera e farò scalo a Dubai. Niente Bhutan. Troppo brutto il tempo e troppo pochi i giorni per il Sikkim. Una terra che non riesco ancora a pensare di visitare da sola. Oppure si vede che, anche quest’anno, non era destino. Vedremo cosa succederà il prossimo.
martedì 26 agosto
DELHI
Il Tirat Ram Hospital, parecchio distante dal mio albergo, sembra degno del nome di Ospedale … Esiste un’accettazione amministrativa all’ingresso e anche un registro, disponibile senza dover ricorrere ad alcuna minaccia. Ho, immediatamente, il permesso per entrare, accompagnata da un gentilissimo impiegato che si scusa più volte per il fatto che dovrò avere di pagare la somma di ben 10 Rs (con tanto di ricevuta), come visitors pass, per salire al reparto di competenza.
Al secondo piano un’infermnera, altrettanto gentile, mi indica la stanza dove si trova Dhondup Tsering. Il quale, con flebo al braccio, sta tranquillamente disteso sul suo letto, sonnecchiando e godendosi oltre al meritato accudimento, anche l’aria condizionata e un televisore! Subito mi segue un ragazzo, che parlando solo due parole di inglese, si definisce suo amico. Sembra piuttosto un controllore e sparisce quasi subito, come per cercare rinforzi. Dhondup, nel frattempo si sveglia e mi accoglie con un sorriso solare che mi restituisce tutto il buonumore scomparso. Parla un po’ di inglese e ci capiamo benissimo. Mi dice che sta bene. Che si sente in forze e che non vede l’ora di tornare a casa sua, dove la famiglia lo sta aspettando.
Non sto a descrivere la sua felicità quando gli offro il mio cellulare per parlare con i parenti … E’ emozionatissimo e il foglietto stopicciato dove ha scritto l’indirizzo gli cade più volte dalle mani. Sono emozionata anche io. Non solo per la mia nota solidarietà a tutte le persone che soffrono più di altre per età o per debolezza, ma perché la sua carica di energia e di ottimismo è fortissima e contagiosa.
Che bello che è quest’uomo, giovane e vecchio insieme. Capace di scegliere di morire. E che decide di continuare la stessa lotta cui ha dedicato la vita. Gli chiedo dei figli. Mi dice che non ne ha, ma che ha tanti nipoti. E si interessa di me, delle mie scelte, del perché le ho fatte. Poi mi conferma che dal primo Ospedale è scappado davvero, per paura della Polizia e mi trasmette velatamente l’idea che anche qui non si senta tranquillo del tutto … Un colloquio fitto, semplice, intensissimo. Come se ci conoscessimo da sempre ma con la curiosità vorace e l’attrazione che si ha per gli sconosciuti.
Poi rientra il suo amico. Accompagnato da un forzuto giovanotto che si qualifica come volontario del TYC. E che mi guarda con (forse legittimo) sospetto. Spiego, racconto, riassumo, per farlo sentire più tranquillo. Ma è soprattutto Dhondup che gli parla di me. Come, appunto, se fossi una sua vecchia amica, di cui ci si può fidare. Alla fine si rilassa e acconsente, addirittura, a scattarci lui una foto. Peccato che sbagli inquadratura … Si sarebbe vista la mano stretta a pugno che Dhondup teneva solo un pochino sollevata dal letto, per via della flebo. Come la aveva alzata mentre i poliziotti lo trascinavano via.
Ci lasciamo a fatica, con scambio di indirizzi, molti abbracci e il desiderio, sincero, di incontrarci di nuovo. Sembra davvero stupito che gli lasci, tra i doni, una busta piena di pilloline tibetane, quelle del Dalai Lama. Dice che non dovrei privarmene perché sono preziose per il mio benessere e servirebbero a farmi sentire felice …
Grazie Dhondup! Spero che a te facciano lo stesso effetto. Di certo, le meriti più di me e più di chiunque altro. Grazie davvero. Il tempo passato con te è stato il migliore di tutto questo mese. E di molti mesi della mia vita.
Stavolta con la scorta del TYC passo al primo piano, dove ci sono gli altri digiunatori. in stanzette separate. Nella prima dove mi fanno entrare ritrovo il “mio” monaco ragazzino. Thupten Tsewang che, appena mi vede nello scorcio della porta fa un salto sul letto e mi apre le braccia. Davvero mi ha riconosciuta? O gli appaio come una qualunque “non tibetana”? Una delle tante persone che lo hanno visitato nella tenda … Ma lui mi ha riconosciuto davvero! A riprova, mi mostra la mala che gli avevo affidata e che tiene ancora al polso! Parliamo fitti fitti, senza capire un accidente delle parole che diciamo. E, allo stesso tempo, comprendendo ogni cosa.
Poi arriva, a sorpresa, una giovane infermiera tibetana. Lavora qui in Ospedale da un anno e si offre di farci da interprete. Accetto la sua cortese offerta e ripetiamo i nostri discorsi. Ma, non viene fuori niente di nuovo. Niente che non avessimo già capito per nostro conto. Come succede con Yeshi al monastero, che parla solo un dialetto cinese. Per me chiarissimo, tanto quanto per lui è chiaro il mio italiano … Altro che esperanto. Non c’è proprio niente di meglio del linguaggio dei gesti e, soprattutto, di quello del cuore.
Il compagno di stanza di Thupten Tsewang è un altro monaco con cui scambio qualche frase di buon augurio e qualche sorriso. Prima di andarmene Thupten mi dice che mi aspetterà, il prossimo anno, al Sera Jey Dema Khamtsen Monastery e che, nell’attesa, conserverà al polso la mia mala … Niente foto, però, cominciano ad affacciarsi i dottori e il volontario del TYC inizia a sentirsi nervoso.
Nella stanza successiva c’è Nawang Samden. Sta da solo, con un amico. Con lui non ho mai parlato quando era nella tenda. Ma lui si ricorda lo stesso. Certo che il colore sbiadito della mia pelle favorisce la memoria … E poi di stranieri ne devono avere visti pochini. Sapendo che tutti gli anni vado a Mundgod, mi dice che ci rivedremo. E di andare a trovare il suo compagno di Monastero (Drepung Gomang) che si trova nella stanza vicina.
Così rivedo anche Tashi Gyatso. Il mitico monaco lottatore, tutto muscoli e cervello. Quello che si metteva a sedere di fronte alla tenda per rassicurare i supporter accovacciati in terra. Quello che è scappato poco prima che arrivasse la polizia e che è rientrato nella tenda quando gli altri 5 digiunatori erano stati trascinati via. E che ha continuato, da solo, il suo sciopero della fame (e della sete), anche se per una mezz’ora appena, prima di essere preso anche lui. Quello che non ha mai fatto mezzo sorriso per tutti gli otto giorni del digiuno. E che solo adesso ne accenna uno, nell’accogliermi. Un “gigante”. Al di sopra di tutti noi. Un gigante davvero.
Per gli altri non c’è più tempo. Guardo di sfuggita l’orologio e mi accorgo che sono le 16.30. Non so come sia stato possibile. Il tempo è volato davvero. E ora devo scappare proprio se non voglio perdere il “mio volo”. La macchina mi aspetta di fronte all’hotel alle 17,30 e i bagagli sono ancora da fare! Ma resto, comunque qui, incapace di allontanarmi almeno con il pensiero …
Il resto del pomeriggio è a dir poco frenetico e arrivo all’Indira Gandhi di stretta misura, calcolando anche tutte le perdite di tempo connesse alla verifica di un passaporto in semplice fotocopia … L’India, che strano paese. Dove puoi parlare con un reincarnato che non riceve anima viva, scattare foto a una cerimonia segreta. Ma non aspettarti che l’impiegato addetto al controllo comprenda che la copia di un documento deve, per forza, essere analoga all’originale, almeno se gli Uffici governativi locali lo hanno già certificato. Come testimonia la fronte corrugata di quest’uomo, che, incurante dell’aereo pronto al decollo, con calma serafica, incrollabile tenacia e ottusa determinazione, impiega quindici minuti buoni, per leggere, per tre volte, tutte le parole che compongono la triplice copia di ciascuno dei cinque documenti richiesti. Parto, finalmente, come fossi un criminale di guerra. Certa che, ormai, nessun’altra complicazione aggiuntiva si potrà frapporre tra me e la mia “casa” …
mercoledì 27 agosto
DUBAI
Complicazione che, puntualmente, mi accoglie a Dubai. Dove sbarco alle 2 di mattina, con in mente solo il desiderio di una doccia e di un letto nell’albergo prenotato per il tranfer. E invece niente. Scopro, con disappunto, che non posso raggiungere l’hotel perché, si trova al di là della strada rispetto all’ingresso dell’aeroporto. E io non ho il passaporto! Inizio volendo fare la ragionevole. E chiedo di poter dormire in un albergo interno. La richiesta viene declinata per assenza di stanze. La proposta alternativa è quella di dormire nella lounge della business e fare la doccia in albergo … Ma quello che mi fa uscire dai gangheri è che il boss dell’Ufficio immigrazione non mi guarda nemmeno mentre mi risponde, con tutto lo sgarbo e l adistrazione di cui è capace. Forse, semplicemente, perché qui essere una donna non deve offrire molti vantaggi. Il che mi fa aumentare la rabbia e mi predispone alla lotta. Non tanto per la stanza negata. In fondo ho dormito in ben altre condizioni o non ho dormito affatto. Ma per la tracotanza di uno stupido arabo che mi tratta senza rispetto. Quindi alzo la voce e passso alle minacce. Che, purtroppo, funzionano sempre. Così la stanza che non era libera diventa libera e alla suite si aggiungono anche mille scuse. in questo mondo che, alla fine, è tutto un solo paese
Arrivo a Roma alle 14. Con molta nostalgia per le cose e le persone che ho lasciato. E con molta gratitudine per le cose e per le persone che accolgono il mio ritorno …