Cina nega di avere campi di concentramento. Sarà vero?
La Cina non ha campi di concentramento nella regione dello Xinjiang. Un’affermazione del governo asiatico verso gli Stati Uniti che, lo scorso 3 maggio, accusavano Pechino di detenere tre milioni di persone, uiguri a maggioranza musulmana in campi di concentramento.
Cina: “USA smettano di interferire”
“Il Partito comunista sta usando le forze di sicurezza per un massiccia reclusione di musulmani cinesi nei campi di concentramento”. La critica arriva da Randall Schriver, segretario alla Difesa degli Stati Uniti, come riporta la CNN. A sua volta, Geng Shuang, portavoce del ministero degli Esteri della Cina, ha ribadito che i campi di concentramento nello Xijiang sono “semplicemente non veri”. Tuttavia, esistono dei campi, che sarebbero in realtà attrezzati per “combattere il terrorismo”. Inoltre, Shaung ha invitato gli USA a “rispettare i fatti, abbandonare il pregiudizio, esercitare prudenza con parole e gesti e di smetterla di interferire con gli affari interni della Cina”. In questo modo, si contribuirà “seriamente alla reciproca fiducia e cooperazione” tra i due paesi.
Ma esistono questi campi di concentramento?
Sulle carte, per ora, non sono ancora ufficializzati campi di concentramento veri e propri. Però, possiamo desumere qualcosa dai fatti. In Cina, soprattutto nello Xijiang, esistono dei campi di rieducazione, o “campi di formazione professionale” (definizione di Pechino), dove le persone detenute sono rieducate in base ai precetti del governo cinese.
Come se non bastasse, più volte è stata documentata l’esistenza di centri di rieducazione ben lontani dall’essere congrui al rispetto dei diritti umani. Qualche mese fa, ad esempio, The Print diffuse foto di tre nuovi ‘Gulag’ in Tibet. Prima ancora dell’uscita di quest’inchiesta, il portavoce del ministro degli Esteri cinese Hua Chunying dovette pronunciarsi in merito a nuove accuse di campi di reclusione. “Rappresentano una grave distorsione e un attacco vizioso ai fatti”, affermò.
Tuttavia, le domande restano. Anche perché questi luoghi di detenzione sono già stati oggetti di richiami importanti da parte dell’ONU. E definirli ‘campi di concentramento’ è una mossa eloquente di come sia necessario aumentare l’attenzione internazionale sulla questione Xijiang e Tibet.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante