L’Istituto Confucio è utilizzato dalla Cina come mezzo di propaganda?
Fin dalla sua nascita, l’Istituto Confucio è stato al centro di numerose polemiche e controversie (soprattutto di natura accademica). In particolar modo, sono diverse le critiche rivolte all’ente, reo ad esempio di essere usato principalmente come tentacolo internazionale della propaganda cinese, che punta alla promozione dell’immagine di un Paese asiatico florido sotto ogni punto di vista. Cosa sappiamo fino ad oggi?
Cos’è e quand’è nato l’Istituto Confucio?
L’Istituto Confucio nasce nel 2004 con l’obiettivo pubblico di diffondere all’estero la lingua e la cultura cinese. Fu voluta fortemente dallo Hanban, un’istituzione no-profit del Ministero dell’Istruzione della Repubblica Popolare Cinese ed è diretta da alcuni membri di grande rango del Partito Comunista Cinese. Più nel dettaglio, lo Hanban finanzia proprio gli Istituti Confucio. La loro non è una natura indipendente, in quanto vivono e proliferano all’interno di strutture universitarie e scolastiche estere, in particolar modo di scuola superiore (in quest’ultimo caso si parla di Classi Confucio, Confucius Classrooms o CC).
Quanti Istituti Confucio ci sono al mondo?
Il primo Istituto Confucio è stato aperto il 21 novembre 2004 a Seul, in Corea del Sud. Da lì in poi, l’organizzazione si è diffusa capillarmente in diverse parti del mondo, arrivando praticamente ovunque. In Italia abbiamo la presenza di Istituti Confucio a Firenze, Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli, Macerata, Venezia, Pisa, Padova ed Enna. Secondo Il Foglio, nell’ottobre 2019 si contavano nel Bel Paese ben 13 Istituti Confucio, con una quarantina di CC, tra cui troviamo quello aperto nel 2006 presso il Dipartimento di Studi Orientali della Sapienza di Roma – il più grande in Italia e il secondo in Europa.
Tuttavia la presenza di questa entità è abbastanza forte e netta in tutto il mondo. In base ai dati diffusi da Asia News, infatti, un Rapporto annuale del 2011 pubblicato dal quartier generale degli Istituti ha confermato per esempio l’esistenza di 112 enti e 324 CC in America settentrionale e meridionale (81 IC e 299 CC solo negli Stati Uniti). Per diverso tempo, il numero è stato sempre in netta crescita. Sempre Asia News specifica che, nel maggio 2012, l’ente aveva raggiunto le 858 unità nel mondo, di cui 385 IC e 500 CC, tra cui gli 83 IC dei paesi asiatici, i 122 europei e i 25 africani.
Nel 2019, invece, Il Foglio ha spiegato che si è registrato un calo rispetto agli anni precedenti: sono stati contati circa 500 Istituti Confucio in oltre 134 nazioni nel mondo. Di contro, nel luglio 2020 il dato si è leggermente innalzato: 541, di cui 135 in Asia, 61 in Africa, 138 in America, 187 in Europa (in Italia ci sono 12 IC e tre CC), 20 in Oceania (Hanban). Un numero molto basso rispetto ad epoche precedenti, causato soprattutto da alcune controversie accademiche nate in diversi paesi.
Come mai si pensa che l’Istituto Confucio sia un mezzo di propaganda?
Diverse testate, vari esperti e numerosi studiosi (soprattutto negli Stati Uniti) hanno spesso sottolineato l’assenza di indipendenza accademica da parte dell’Istituto Confucio. Tra le accuse rivolte, si parla proprio di essere un mezzo di propaganda atto a implementare quella strategia internazionale cinese basata sulla diffusione di un’immagine democratica e civilizzata del Paese attraverso il soft power, che si basa su due strumenti principali: lo studio della cultura e della lingua cinese, con l’obiettivo secondario e non-scritto di distrarre l’opinione pubblica da alcuni temi sensibili, e quindi limitare la libertà delle istituzioni accademiche.
A riprova del fatto, ci sono alcune teorie e diversi fatti che riguardano proprio gli stessi Istituti, i quali vorrebbero soffocare molte manifestazioni culturali sgradite al PCC, anche se organizzate fuori dal territorio nazionale, soprattutto se riguardano le tre T: Tibet, Taiwan e Piazza Tienanmen (argomentazione sostenuta dal professore emerito di storia all’Università dell’Oregon, Glenn Anthony May), a cui vanno aggiunti gli argomenti riguardanti il Dalai Lama e i diritti umani in generale.
Il primo a parlare della poca trasparenza dell’Istituto Confucio in Italia è stato Maurizio Scarpari che, nel 2014, scrisse un articolo in merito su Il Manifesto: “Solo alcune università – si legge -, in genere le più prestigiose, hanno potuto contrattare condizioni finanziarie e sistemi di gestione particolari”. Insomma, al centro ci sarebbero “dei generosi finanziamenti” che venivano concessi per favorire l’insediamento dell’ente nelle università, “creando così i presupposti per comportamenti talvolta troppo accondiscendenti, se non addirittura di autocensura, che hanno svilito l’offerta culturale”.
Stati Uniti e Istituto Confucio: alcuni casi
Basti pensare che, nel 2009, la North Carolina State University (USA) fu al centro di un’aspra polemica proprio in merito all’integrità accademica del centro. L’Università, infatti, fu ‘esortata’ a eliminare la visita del Dalai Lama, che in sede avrebbe parlato dei diritti umani nel Tibet, in quanto avrebbe potuto compromettere le relazioni con la Cina. Nel 2014, invece, l’Università di Chicago decise di chiudere definitivamente l’IC nel proprio istituto, dopo che una petizione firmata da 100 professori contestava la liceità dell’organizzazione. Simili provvedimenti furono presi anche dall’Università di Manitoba e della McMaster University, in Canada.
Tre anni dopo, inoltre, docenti ed ex studenti dell’Università del Massachusetts si unirono contro alcune ingerenze dell’Istituto Confucio, in particolare dopo che l’ateneo si era rifiutato di accedere a fondi offerti dalla China United States Exchange Foundation (CUSEF), fondazione di Hong Kong legata strettamente al Partito Comunista. Secondo l’esperto di affari cinesi e il presidente del Population Research Institute (Pri) Steven Mosher, l’Istituto Confucio sarebbe un vero e proprio “cavallo di Troia” (Asia News) che punta a indottrinare i giovani americani e a convincerli che la Cina non è una minaccia.
Anche l’Europa non si è tirata indietro
Tutti questi casi hanno creato un effetto domino abbastanza particolare, portando diverse nazioni a chiudere (anche definitivamente) il rapporto con l’organizzazione cinese. In Europa, ad esempio, sono diverse le nazioni che hanno cominciato a dubitare del sistema, tra cui spicca la Svezia, prima nazione europea ad accogliere gli IC e sempre prima nazione europea a terminare nel 2020 tutti i rapporti (a gennaio chiuso ultimo IC nell’Università di Leula, a maggio l’ultima CC). Insieme al paese scandivano, anche il Belgio si è fatto notare per non aver rinnovato a giugno il contratto della Vrije Universiteit Brussel con l’Istituto Confucio, soprattutto dopo che l’ex direttore dell’Istituto Song Xinning è stato accusato dai servizi d’intelligence locale di “spionaggio a favore di Pechino” (Formiche.net).
In Italia, invece, il dibattito sembra abbastanza sopito. Uno dei fatti più recenti riguarda l’appello del professor Scarpari che, nel dicembre 2019, dalle pagine del Corriere della Sera, ha lanciato un appello alla chiusura degli Istituti Confucio nelle università italiane dopo i fatti di Hong Kong. “Un buon inizio – esortava Scarpari – sarebbe ridimensionare drasticamente il ruolo degli IC, estrometterli dalle università, rendere incompatibile la figura del condirettore con quella di professore universitario, soprattutto se di area sinologica (…), riportare insomma gli IC allo status degli altri istituti culturali, salvo poi organizzare attività congiunte nel pieno rispetto delle competenze e delle autonomie di entrambi”.
L’incidente di Braga
Tra i fatti più noti però legati ad alcune ingerenze da parte dell’Istituto Confucio c’è “l’incidente di Braga“, così nominato per uno scandalo accademico accaduto in Portogallo nel 2014 . Il 23 luglio, infatti, a Braga e Coimbra andava in scena il convegno biennale della European Association for Chinese Studies, e tra i partecipanti c’era anche Xu Lin, viceministro cinese dell’educazione e direttrice generale dello Hanban, protagonista di un gesto abbastanza eclatante.
Dopo aver notato che il programma del convegno pre-approvato dallo Hanban conteneva “la sintesi di interventi il cui contenuto è contrario alla normativa cinese” (Il Manifesto) e troppa enfasi all’attività dell’ente no-profit taiwanese Chiang Ching-kuo Foundation, Lin decise di sostituire le copie del programma ad oltre 300 partecipanti, privandole di alcune pagine ritenute dannose per l’immagine della Cina. A denunciare la vicenda fu il professor Roger Greatrex, direttore del Centre for East and South-East Asian Studies dell’Università di Lund (Svezia), che ristampò le parti mancanti e le mostrò pubblicamente, parlando di una violazione della libertà accademica. Lo stesso Wall Street Journal descrisse quell’incidente come “l’approccio al bullismo nei confronti della libertà accademica”, riaccendendo così i riflettori sull’integrità dell’Istituto Confucio.
Istituto Confucio punta a legami aziendali all’estero
Un’altra denuncia sollevata da Asia News riguarda l’implicazione dell’Istituto Confucio in determinate manovre commerciali per costruire legami solidi con le realtà aziendali del paese ospitante. Sul piatto della bilancia, in un programma avviato nel dicembre 2018, l’ente offrirebbe diversi servizi alle imprese o alle multinazionali estere, tra cui lezioni di comunicazione linguistica, interculturale e assistenza alla traduzione, oltre a corsi dedicati alla Cina contemporanea. Una crescita significativa di questo trend è stata registrata negli Stati Uniti (Oregon, Nebraska, Arkansas, Miami e Minneapolis), nel Regno Unito (Sheffield) e in Australia.
Di contro, anche le multinazionali hanno investito sugli IC, offrendo a loro volta “sponsorizzazioni o assistenza finanziaria” (Asia news). A tal proposito, è famosa una vicenda accaduta in Germania, dove l’Audi ha contribuito alla realizzazione dell’Istituto Confucio Audi-Ingolstadt nell’omonima città. Come se non bastasse, infine, gli stessi IC cercano aziende cinesi all’estero con cui collaborare. Nel marzo 2018, ad esempio, è stato registrato un programma di formazione linguistica e culturale ai dipendenti della Jushi, colosso cinese della vetroresina.
Gli Istituti Confucio oggi
Insomma, è innegabile asserire che, attualmente, l’Istituto Confucio non sta vivendo un momento particolarmente roseo. Tant’è che Pechino ha deciso di abbandonare lentamente il marchio (in inglese noto con il termine “Confucius Institute”) puntando su un look basato su “scambio di lingue e cooperazione” (South China Morning Post).
Una trasformazione che ha investito anche l’Hanban, ora noto con il nome di Centro del Ministero della Pubblica Istruzione per l’educazione e la cooperazione linguistica. Lo stesso direttore generale del centro, come riporta SCMP, Ma Jianfei, ha affermato che l’organizzazione punterà alla “cooperazione con le istituzioni pertinenti negli Stati Uniti” e “di costruire un nuovo modello più mirato” per “gli scambi culturali tra Cina e Stati Uniti”.
Uno scenario, comunque, abbastanza difficoltoso, anche alla luce degli ultimi fatti politico-economici, come l’aggiornamento del Tibet Act e la fine dei rapporti commerciali speciali con Hong Kong, in una continua guerra fredda che, molto probabilmente, dovrà tenere conto anche di questi opinabili Istituti Confucio.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante