“Hong Kong to freedom”: altro weekend di proteste, la Cina si spazientisce
“Hong Kong to freedom”, “Hong Kong verso la libertà”. È lo slogan scelto dai manifestanti della cittadina orientale per il decimo weekend di manifestazioni (non autorizzate) contro il governo di Carrie Lam. Stavolta un oceano di persone si è riversata all’interno dell’aeroporto di Hong Kong, come già accaduto il 26 luglio scorso. Nella mattinata di venerdì 9 agosto, infatti, numerose persone hanno organizzato un sit-in di proteste all’interno della struttura “che, secondo le agenzie, andrà avanti per tre giorni”, come spiega Il Fatto Quotidiano, insieme a Il Post. Ancora una volta, dunque, il popolo torna ‘in piazza’ e chiede a gran voce l’autonomia da Pechino.
“Hong Kong to freedom”, quando tutto ebbe inizio
Come abbiamo documentato nei giorni scorsi, la miccia che ha innescato l’agitazione sociale all’interno della piccola realtà asiatica è stata il disegno di legge sull’estradizione di Carrie Lam. Una manovra bocciata ancor prima della sua nascita, e che ha messo in ginocchio la credibilità della governatrice, le cui idee sono state più volte accostate alla politica cinese. Tale percorso, tuttavia, non si è fermato all’indomani dell’aborto dell’operazione legislativa. Anzi, ha assunto maggiore risalto mondiale, fino a entrare nel merito del tanto discusso “un paese, due sistemi”.
Proteste senza fine
Dunque, le proteste si sono allargate non solo contro il governo locale, ma anche verso Xi Jinping. Non è un segreto, infatti, che l’ex colonia britannica sarà annessa nell’universo cinese entro il 2046, come sancito da alcuni accordi internazionali. Già da tempo, però, sono in tantissimi a manifestare il proprio dissenso contro la futura unione, chiedendo invece a gran voce una completa democrazia lontana dalla Cina. “Hong Kong to freedom”, quindi, diventa sempre più una richiesta forte e impossibile da ignorare. Una luce per chi è preoccupato delle possibili conseguenze totalitarie che potrebbero affacciarsi una volta inglobati totalmente a Pechino.
Gli Stati Uniti vicini ai manifestanti
“Hong Kong to freedom” è diventato anche un nuovo argomento nella nuova guerra fredda tra USA e Cina. Più che altro, è un tiro e molla che va avanti da diversi mesi, a colpi di dazi e pressioni ideologiche. In realtà, gli Stati Uniti hanno spesso redarguito la Cina in merito alla questione tibetana. I fatti di Hong Kong sono stati registrati dal paese a stelle e strisce semplicemente come un ulteriore strappo con la potenza cinese.
Nancy Pelosi: “Manifestanti contro governo codardo”
Nel marasma dialettico, emergono le dichiarazioni dello scorso 6 agosto della speaker della Camera USA, Nancy Pelosi, che lancia invettive contro la Cina, sostenendo l’operato dei manifestanti. “Il popolo di Hong Kong – si legge sul sito ufficiale – sta inviando un messaggio commovente al mondo: i sogni di libertà, giustizia e democrazia non possono mai essere estinti dall’ingiustizia e dall’intimidazione. Lo straordinario sfogo di coraggio da parte del popolo è in netto contrasto con un governo codardo che rifiuta di rispettare lo stato di diritto”. Per questo, Pelosi è convinta che “il popolo di Hong Kong merita la vera autonomia promessa, con tutti i diritti garantiti dalla Legge fondamentale locale e dagli accordi internazionali”. E promette che il Congresso realizzerà “l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act” al fine di “preservare le libertà democratiche e lo stato di diritto a Hong Kong”.
La Cina: “Non giocate con il fuoco”
Nel tumulto generale, la Cina storce il naso di fronte alla presa di posizione della controparte statunitense. Oltretutto, la Repubblica popolare cinese sembra non voglia fare alcun passo indietro, andando contro tutto e tutti. In parte, tale sentimento era già emerso da Wu Qian, portavoce del ministero della Difesa Nazionale della Cina. Qualche giorno fa, infatti, il generale aveva fatto sapere che il comportamento di alcuni dei manifestanti erano una sfida all’autorità del governo centrale.
A rincarale la dose ci pensa l’ambasciatore cinese in Italia, Li Junhua. Prima di tutto, infatti, in una conferenza stampa, ha accusato gli USA di alimentare il clima di proteste. “Hong Kong è della Cina – dice – e non accettiamo alcun tipo di interferenza straniera. Chi di spada ferisce di spada perisce”. In aggiunta, il diplomatico si è detto convinto che “se non ci fossero stati questi attori che muovono i fili da dietro le quinte, i manifestanti più violenti non avrebbero avuto il coraggio di fare quello che hanno fatto per le strade della città”. Città nella quale “bisogna fermare il caos e riportare l’ordine” altrimenti “il governo cinese non resterà a guardare”, come riporta l’edizione cartacea de Il Corriere della Sera del 10 agosto 2019. Che sia una velata anticipazione di un’intervento militare nell’isola?
Perché un’intervento militare non conviene a Pechino
Il sospetto che la Cina possa ‘invadere’ l’isola con le proprie truppe non è una possibilità così remota. Gli accordi tra il governo locale e il colosso, infatti, lo permettono, al fine di “mantenere l’ordine o in assistenza contro catastrofi naturali“. Tuttavia, tale soluzione minerebbe “un hub finanziario e commerciale di primaria importanza”, come scrive Il Corriere della Sera. Per il paese asiatico, infatti, Hong Kong resta “la leva che permette a grandi flussi di capitali di sostenere le ambizioni da superpotenza di Pechino”. A livello umano e sociale, tuttavia, il costo sarebbe maggiore. Stiamo parlando di una popolazione locale in contrasto con l’annessione al governo di Xi Jinping. Perciò un’operazione militare sancirebbe l’idea che la Cina voglia ancor di più calpestare i diritti e le voci di chi grida “Hong Kong to freedom”.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante
Fonte immagine principale: The Jakarta Post
Fonte immagine secondaria: Tgcom 24