Cinesi in Italia: problematiche produttive e commerciali
Le problematiche del distretto cinese a Prato e la contraffazione del Made in Italy
La CGIL ha recentemente portato alla luce l’annosa questione sul distretto produttivo cinese di Prato dichiarando pubblicamente il problema dello sfruttamento del lavoro nelle aziende a conduzione cinese. Allo stato attuale risultano lavorare in condizioni illegali non solo i cinesi in Italia ma anche immigrati di altri Paesi come i pachistani e i bengalesi, costretti ad un impiego di 7 giorni su 7 con un orario massacrante di 14 ore a giornata con contratti di lavoro part-ime di 15/18 ore settimanali. Questa pratica ormai coinvolge anche i lavoratori Italiani che collaborano con queste aziende, dove il lavoro nero va per la maggiore e che si sta sempre più inasprendo considerando le scarse opportunità alternative dovute al tasso di disoccupazione generale. L’intervento della CGIL è stato reso necessario in quanto si ravvede il superamento di ogni limite ammissibile in queste pratiche e si richiede alla politica di intervenire per riscrivere e far rispettare le regole agli imprenditori e ai datori di lavoro cinesi in Italia.
Anche Andrea Belli, presidente di Confartigianato, è intervenuto sul dibattito ricordando che sono anni che si discute sulla difficile integrazione delle imprese cinesi di Prato, le quali oltre a rappresentare un problema per l’occupazione, producono rimesse verso la Cina di almeno 400 milioni di euro l’anno, rispetto al contributo per il PIL pratese che si attesta intorno ai 700/800 milioni di euro l’anno. Ne risulta che non si può considerare tale produttività come una risorsa effettiva per la città di Prato.
Naturalmente Belli si fa portavoce delle aziende italiane del territorio di Prato mostrando tutte le sue perplessità rispetto alla mancanza di disciplina e rispetto delle regole da parte delle aziende cinesi presenti in città le quali dovrebbero mostrare più attenzione e più rispetto per lo stato sociale e di diritto italiani.
La manipolazione di prodotti cinesi trasformati in italiani
Una recente indagine ad opera della Guardia di Finanza ha portato alla scoperta di un magazzino a Guidonia Montecelio dove venivano artificiosamente cambiate le etichette di prodotti Made in China scambiandole con false attribuzioni a prodotti italiani. Il dato si aggiunge alla casistica ormai esorbitante che vede le merci cinesi in Italia contraffatte dal Nord al Sud del nostro Paese. Da una recente indagine Censis risulta che “la provincia di Roma è la principale piazza di consumo della merce contraffatta”. In particolare i risultati dell’indagine riportano il sequestro, solo nel 2015, di oltre 3mila prodotti falsi, apri al 20,5% del totale nazionale (con abbigliamento, acccessori, apparecchiature elettriche, calzature, articoli da ufficio, ecc.). In particolare nel magazzino di cui sopra sono stati sequestrati sopratutto casalinghi e accessori, che avrebbero fruttato nello smercio almeno 300.000 euro. L’indagine è partita dopo una serie di controlli a Ladispoli in negozi che esponevano tali prodotti già contraffatti e si è potuto così risalire all’origine della distribuzione che ha portato quindi al sequestro di 60.000 articoli da parte delle Fiamme Gialle. Essendo il marchio Made in Italy tutt’ora il terzo al mondo in fatto di notorietà e garanzia di qualità, anche perché rispetta una serie di normative molto precise e restringenti, i prodotti sequestrati e contraffatti, possono usufruire di un prezzo di vendita e di mercato fino ad 8 volte superiore rispetto alle caratteristiche del Made in China, con conseguenti guadagni dai margini molto elevati e truffaldini.
Font: il Tirreno, Laogai, il Messaggero, Repubblica