Quanto ha influito (negativamente) l’occupazione cinese sull’ambiente tibetano?
Il delicato equilibrio dell’ambiente tibetano è minacciato dalle politiche cinesi. E non è una constatazione dell’ultimo minuto, ma il risultato di scelte e ideologie di oltre mezzo secolo. Sostanzialmente, ci si è accorti – anche con numerose denunce – che il Tibet è profondamente cambiato dopo l’occupazione della Cina degli anni Cinquanta, con conseguenze irreversibili per il territorio locale, martoriato da una concezione materialistica di sfruttamento ambientale.
Geograficamente parlando, il Tibet è situato nel cuore dell’Asia, “con un’altezza media di oltre 4500 metri sopra il livello medio del mare”, come riporta il Central Tibetan Administration, “si estende per quasi 2500 chilometri da ovest a est e 1.500 chilometri da sud a nord”. Si tratta di una zona ampiamente strategica, in quanto si trova a nord dell’India, del Nepal, del Bhutan e della Birmania, a ovest della Cina e a sud del Turkestan orientale”. Un vero e proprio crocevia internazionale.
L’attitudine tibetana alla preservazione dell’ambiente
Prima dell’invasione cinese, l’ambiente tibetano era caratterizzato da un rispetto della natura di encomiabile valore, come documenta un lungo report del Dipartimento Informazioni e Relazioni Internazionali dell’Amministrazione Centrale Tibetana. I tibetani garantivano la conservazione dell’ambiente anche grazie alla loro fede buddista, la quale educa alla coesistenza dell’essere umano con le altre specie viventi e non viventi. Il tutto rafforzato da una norma che impediva di mercificare l’ambiente, ma di raccogliere al suo interno solo beni di prima necessità.
Tale precetto era rispettato anche per preservare molteplici esseri viventi. Basti pensare alle 532 specie di uccelli e ai rari animali selvatici – ora in via di estinzione – come il leopardo delle nevi, la lince, l’orso nero himalayano e lo yak selvatico. In un contesto ambientale dominato da più di 100 mila specie di piante ad alto fusto e 2 mila varietà di erbe medicinali, collocate su un’area di oltre 25 milioni di ettari di foresta. Varietà ambientali certificate altresì dalle risorse minerali: in Tibet, infatti, vi sono 126 tipi di minerali (oro, litio, uranio, cromite, rame, borace e ferro). Inoltre questo Paese detiene i maggiori giacimenti d’uranio del mondo, elemento cruciale per le scelte politiche dell’occupazione cinese.
Infine, di grande importanza sono i fiumi. Dal territorio tibetano nascono i più grandi nomi fluviali dell’Asia, tra cui il Brahmaputra, l’Indo, il Mekong, lo Yangtse e il Fiume Giallo, i quali, secondo alcune ricerche, assicurerebbero la vita al 47% della popolazione mondiale e all’85% di quella asiatica. Dunque, quando si parla di ambiente tibetano, serve rammentare che si tratta di una questione di carattere internazionale.
Come la Cina sta cambiando l’ambiente tibetano
La salvaguardia ambientale portata avanti dai tibetani si scontra drasticamente con l’ideologia consumistica e materialistica cinese. Già da qui, è possibile ipotizzare il cambiamento apportato dall’occupazione della Cina sul territorio locale. Pensiamo, ad esempio, alla riduzione della superficie boschiva: nel 1959, si estendeva su poco più di 25 milioni di ettari, ma nel 1985 si certificava un ridimensionamento del 46% delle foreste (poco meno di 14 milioni di ettari). Una deforestazione accompagnata da tecniche di rimboscamento inefficaci e politiche agricole basate sullo sfruttamento intensivo che hanno prodotto forti erosioni del suolo e diverse inondazioni. Causando, a sua volta, carestie, sovrapproduzione agricola, scomparsa di piante ed erbe e distruzione del delicato equilibrio climatico.
Il caso della centrale di Yamdrok Tso
A circa un centinaio di chilometri da Lhasa, c’è il Yamdrok, uno dei laghi sacri. Nei pressi del vicino e piccolo villaggio di Baidi, sull’estremità occidentale del lago, è stata eretta la stazione idroelettrica omonima, ufficialmente completata nel 1996. Si tratta della centrale elettrica più grande del Tibet, oltre a essere la più devastante in termini ambientali. A causa di questa costruzione, i tibetani hanno perso il 16% della terra coltivabile, oltre alle malattie di vario genere che hanno colpito le popolazioni. Senza contare che, secondo alcuni studi, il lago Yamdrok sarebbe a rischio scomparsa.
“One Belt, One Road”: i problemi della linea ferroviaria Pechino-Lhasa
Nel numero 2 della nostra rivista digitale, THAIS, parlammo del progetto cinese “One Belt, One Road“, deputato alla creazione di due vie commerciali con Europa e Medio Oriente. Basti pensare alla linea ferroviaria Pechino-Lhasa, “nota anche col nome di ‘Linea del Qinghai-Tibet Express’ o ‘Treno del Cielo’ e che collega Xining, capitale della provincia cinese del Qinghai, con Lhasa, capitale del Tibet. In tutto la linea serve 44 stazioni e può essere percorsa da otto treni contemporaneamente”, attraversando diverse terre del Tibet prima incontaminate.
Dunque, un progetto mastodontico di tale portata ha realizzato profonde conseguenze ambientali. Siamo di fronte a una realizzazione “a tutto tondo che utilizza ogni possibile via. Non ultima quella tra i ghiacci, complice il fatto che il cambiamento climatico sta rendendo navigabile il Circolo Polare. Quindi la RPC, dopo aver contribuito non poco a questo disastro, lo sta anche sfruttando. Così le navi affronterebbe il passaggio nord-occidentale dell’Oceano artico per aprirsi una rotta tra Atlantico e Pacifico, libera dal controllo delle nazioni occidentali. Con risparmi garantito di tempo e di danaro”. Il tema è abbastanza spinoso e molto più ampio, l’approfondimento presente a pagina 40 del secondo numero di THAIS potrà allargare la lente d’ingrandimento in merito.
La questione del nucleare
Già nel 1992 il Dalai Lama denunciò a Bangalore (India) la presenta di scorie nucleari in Tibet. Sistematicamente, il governo cinese negò. Tuttavia, il 19 luglio 1995, l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ne dichiarò l’esistenza nella Prefettura Autonoma Tibetana di Haibei, vicino alle rive di uno dei più grandi laghi dell’altopiano locale, il Kokonor, dove si trova “una discarica di venti metri quadrati utilizzata per il deposito di materiale radioattivo”. Inoltre, sempre nella stessa zona, esisterebbe un centro nucleare chiamato dai cinesi Nona Accademia o Fabbrica 211 di cui, però, non si riscontrano ufficialità in merito.
Un’altra segnalazione arrivò dall’International Campaign for Tibet, che indicò il 1971 come l’anno della prima testata nucleare portata in Tibet e posizionata a Tsaidam, nell’Amdo del nord. Tuttavia altre associazioni parlarono di missili nucleari presenti a Nagchuka. Comunque, ciò di cui si ha certezza è la realizzazione di tre località adibite a deposito per questi missili nucleari, tutti presenti nel bacino di Tsaidam. Insomma, una devastazione che sembra non rallentare, rendendo difficoltose le compagne di sensibilizzazioni volte alla cura e alla difesa dell’ambiente tibetano.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante