Emergenze e aiuti umanitari

In questa pagina viene dato spazio ad emergenze che richiedono l’attivazione di aiuti e solidarietà tra gli esseri umani. O che dovrebbero attivarla. Oltre che stimolare un attenta riflessione su quali possono essere sia le possibili cause dei disastri, sia le misure volte alla loro gestione …

Sempre con lo sguardo alla tutela delle persone, oltre che del nostro pianeta.


26 dicembre 2008 – Appena pubblicato il Laogai Handbook del 2008
Laogai

La Laogai Research Foundation di Washington ha appena pubblicato l’edizione 2008 del Laogai Handbook che elenca  ben 1422 campi Laogai attualmente attivi.  Nell’edizione precedente i campi attivi erano 1045.  Anche se il numero preciso dei campi ed il numero  dei detenuti sono considerati “segreti di stato” in Cina, è evidente che i campi Laogai sono in crescita poichè forniscono al regime una forza di lavoro enorme ed a costo 0 che il regime comunista cinese usa sia per il mercato interno che per l’esportazione, facendo affari con numerose multinazionali.


In un rapporto di giugno 2008, , la Laogai Research Foundation ha denunciato che almeno 314 imprese elencate nella banca dati internazionale di Dun & Bradstreet sono dei Laogai e 65 di questi hanno la parola “prison” nel nome d’impresa….. Quindi, in barba a tutti gli accordi internazionali, sembra essere normale usare il lavoro forzato a scopo di profitto, oggi, nel terzo millennio.

Vi invitiamo a consultare il Laogai Handbook e ricordiamo che molti rischiano la loro vita per farci avere queste informazioni.Non dimentichiamoli !


Cina, 13 dicembre 2008 – Arrestati i firmatari della Carta 08: chiedevano democrazia e libertà
l’Occidentale, by Stefano Magni


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Clicca qui per il testo in italiano della Carta 08

’Onu celebra il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Ma in Cina, ricordare questa ricorrenza è molto pericoloso: può costare l’arresto. 303 cittadini cinesi hanno firmato un documento chiamato “Carta 08” (il cui nome ricorda il noto “Carta 77” dei dissidenti cecoslovacchi), in cui si chiede al governo libertà religiosa, democrazia e rispetto dei diritti umani. Fra i firmatari di “Carta 08” vi sono intellettuali di molte università cinesi, ma anche imprenditori, contadini, semplici cittadini.

Il documento riconosce qualche qualità positiva all’attuale regime di Pechino: i cambiamenti avvenuti negli ultimi 20 anni, con l’uscita del Paese dal totalitarismo di Mao Tse-tung e la conseguente sconfitta della miseria in cui versava la popolazione. I firmatari vogliono anche ricordare che: “nel 1998 il governo cinese ha firmato due importanti documenti internazionali sui diritti umani; nel 2004 ha emendato la costituzione per inserire la frase ‘rispettare e proteggere i diritti umani’; che quest’anno 2008 ha promesso di promuovere un ‘piano nazionale d’azione sui diritti umani’”. Purtroppo – si conclude – “la maggior parte di questo progresso politico non è andato oltre le affermazioni scritte sulla carta”. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: prosegue la violenza di Stato contro i dissidenti, dilaga la corruzione.

Lungi dall’ottenere una maggiore eguaglianza, si sono accentuate le differenze fra le classi sociali. Giusto per fare un esempio: in Cina la sanità è la più cara del mondo, in rapporto al basso potere di acquisto dei cinesi. Quando Pechino ha svolto un’indagine online tra i cittadini, chiedendo quali fossero i difetti principali del sistema sanitario, le 17.000 risposte ottenute convergevano su tre punti principali: costi alti, assicurazioni sanitarie proibitive e servizi scadenti. Le autorità cinesi hanno ammesso solo questa settimana il disastro causato dalla crisi economica, da cui la Repubblica Popolare non è affatto immune. L’emergenza ambientale è la più grave del mondo: ogni anno, la Cina accresce dell’8-9% le emissioni globali di Co2 nell’atmosfera. Le misure anti-inquinamento condotte prima delle Olimpiadi (applicate in modo molto drastico, con chiusura o trasferimento di interi impianti industriali e leggi restrittive sul commercio nella capitale) hanno interessato la sola regione di Pechino e hanno avuto effetti limitati. La rivolta scoppiata in Tibet la primavera scorsa e il rischio di ribellione nella popolazione musulmana del Turkestan orientale, rivela quanto la questione delle minoranze sia ancora esplosiva. La Cina ha ammesso di essere “indietro” nel rispetto dei diritti umani.

A questo proposito, torna molto utile una lettura della dichiarazione della Commissione contro la Tortura delle Nazioni Unite, rilasciata il 22 novembre scorso. Pur ottimista sui progressi compiuti dallo Stato-Partito cinese (e già non dovrebbe essere considerato “normale” uno Stato che coincide con un Partito unico di governo), in una decisione legalmente vincolante, il Comitato ha richiesto un’indagine sulla raccolta illecita di organi di praticanti del Falun Gong, l’ultima di una lunga serie di azioni intraprese da scrittori, avvocati, medici e rappresentanti di governo per ricercare e condannare tali abusi. Dalle altre richieste formulate dalla Commissione, con tutto il tatto diplomatico possibile, si deduce che in Cina i prigionieri sono costretti a rieducazione e lavori forzati, gli avvocati sono troppo spesso arrestati e non si sa nulla del maltrattamento (e delle morti “accidentali”) nelle carceri. Si pratica ancora la tortura psichiatrica, come nell’Urss dei tempi di Chrushev e Breznev: questa settimana, il governo di Xintai (Shandong) è stato accusato di avere internato in ospedale psichiatrico, dal 2006, almeno 18 persone che volevano presentare petizioni di protesta contro corruzione e malgoverno. Pare che siano state rilasciate solo dopo avere sottoscritto una rinuncia alla protesta.

Per questo e altri motivi, i firmatari del manifesto definiscono “folle” la modernizzazione cinese, così come è stata condotta sinora con metodi autoritari. La via indicata dalla Carta è quella della liberalizzazione. “I diritti umani non sono concessi dallo Stato” – afferma il documento – “ogni persona nasce con inerenti diritti alla dignità e alla libertà” e dunque “il governo esiste per la protezione dei diritti umani dei suoi cittadini” e “l’esercizio del potere dello Stato deve essere autorizzato dal popolo”. E anche il percorso è quello liberale classico. Primo: separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Esecutivo e legislativo devono essere resi elettivi con suffragio universale e sistema multipartitico. Il potere giudiziario deve essere completamente riformato, visto che oggi i giudici stessi ammettono di essere obbligati ad emettere sentenze favorevoli al Partito e ai suoi interessi. Secondo: separazione fra Stato e religione, abolendo l’attuale sistema di registrazioni, in base al quale lo Stato-Partito può discriminare fra religioni e controllare quelle permesse. Terzo: garanzia della proprietà privata, riconosciuta ufficialmente dallo Stato solo da tre anni e non ancora del tutto definita (visto che attualmente è sia individuale che collettiva e statale). Quindi i contadini (che attualmente sono in affitto) devono diventare proprietari della terra che lavorano. Quarto: federalismo, l’unico sistema in grado di tenere assieme una terra così vasta e così multiforme senza bisogno di imporre un’autorità centrale dittatoriale.

Inutile dire quale sia stata la risposta di Pechino a queste proposte di riforme: uno dei firmatari più in vista di Carta 08, l’intellettuale Liu Xiaobo è stato arrestato dalla polizia lo scorso 8 dicembre. Un altro, Zhang Zuhua, è stato sottoposto a interrogatorio per 12 ore e poi rilasciato. Lo scienziato Jiang Qisheng e l’avvocato Pu Zhiqiang sono stati interrogati. Pu è sotto il controllo della polizia. Wen Kejian, pure firmatario di Carta 08, ammonito dalla polizia di non frequentare altri attivisti e non lasciare la città di Hangzhou. Chen Xi, Shen Younian e Du Heping, arrestati dalla polizia il 4 dicembre a Guiyang (Guizhou).

Come a Tienanmen, insomma, alla domanda di democrazia, Pechino risponde con la forza. Ma il solo fatto che esista un gruppo di cittadini, anche di umili origini, dotati del coraggio necessario a sfidare pubblicamente l’autoritarismo dimostra che non tutti i cinesi sono nazionalisti, felici e orgogliosi della loro potenza, così come vengono dipinti dalle nostre parti. Dimostra anche che il liberalismo, quello classico della difesa dei diritti individuali, è ancora visto in alcune parti del mondo come una filosofia della liberazione dell’uomo.



06 novembre 2008 – la zona sudoccidentale cinese colpita da piogge alluvionali: si contano 40 morti e 43 dispersi
Meteogiornale

La zona sud occidentale della Cina è stata sconvolta da piogge di stampo alluvionale. La segnalazione viene dall’agenzia China Daily, che parla soprattutto della zona del Guangxi, e della sua capitale Nanchino, colpite da alluvioni che non si registravano dal 1907.


La provincia presenterebbe un bilancio di 43 morti e 43 dispersi, mentre la Regione dello Yunnan presenta 13 città (compresa la capitale Kunming), colpite da torrenti di fango e di rocce, con ben 1,3 milioni di persone colpite da tali intensi allagamenti.

A Kunming le precipitazioni complessive degli ultimi dieci giorni ammontano a 131,6 mm, mentre a Mengzi le piogge sono state pari a 130,2 mm in quattro giorni.
Bijie ha visto cadere 60,2 mm nelle ultime 24 ore.

Anche se non si tratta di quantitativi imponenti, bisogna considerare la vastità del territorio nel quale sono cadute tali precipitazioni, nonché il carattere montagnoso di questa zona, che facilita il verificarsi di piene improvvise.

Tali inondazioni seguono quelle che hanno interessato il Vietnam, tra la fine di ottobre ed i primi di Novembre, dove hanno provocato 55 vittime (le peggiori alluvioni degli ultimi 25 anni). La zona nord occidentale della provincia dello Yunnan, che presenta vette che superano i 5000 metri di altezza, è stata colpita da pesanti nevicate, che hanno bloccato tutte le vie di comunicazione.

Ad inizio mese, del resto, grandi nevicate avevano colpito il Tibet, causando delle vittime ed isolando alcune migliaia di pastori. Linzhi, nel sud est del Tibet, ha visto cadere un metro e mezzo di neve fresca in 36 ore di intensa bufera. Del resto, fa molto freddo su tutta la zona: le temperature minime sono scese questa mattina fino a valori di -19,4°C a Nagqu, e di -26,4°C a Wudaoliang.


Tibet, november 1, 2008 – Snowstorms in Tibet Leave Nine Dead
Phayul


Severe snowstorms have left at least nine people dead and trapped hundreds in Tibet, state media said on Saturday.

Rescuers had evacuated 1,892 people in the worst-hit counties of Lhunze and Tsona in Shannan district and were trying to reach some 250 people still trapped by heavy snowfall, the semi-official China News Service said. Most of the nine people who died had either frozen to death or were hit by falling buildings brought down by the weight of snow, other reports said.

The worst-hit areas reported snow lying an average of 1.5 metres deep after heavy snow fell for 36 hours continuously earlier this week. The newspaper said at least 144,400 yaks and sheep had died in what was reportedly the worst snowstorm on record in Tibet.

Telecommunications and roads were badly affected in parts of Shannan, while the heavy snow also affected mountainous areas of the neighbouring provinces of Qinghai, Sichuan and Yunnan.

Those rescued from remote areas were sleeping in schools or government buildings. Tsona county had been cut off for three days but the main road linking it to Lhunze reopened on Thursday after road workers and paramilitary police battled for 63 hours to clear snow.


Napoli e Prato, 18 ottobre 2008 – Conchiglie cinesi illegali sequestrate dalla forestale
La Nazione

Tra i 10 quintali di latte con sospetta contaminazione da melamina sequestrati a Napoli dalla Forestale durante una maxi-operazione, sono spuntate anche centinaia di confezioni – barattoli di vetro e buste di plastica per un totale di 40 chili – di datteri di mare, importati da una ditta di Prato ed etichettati come ‘vongole’, in italiano, probabilmente per evitare ispezioni, che sono stati messi sotto sequestro perché vietatissimi. I datteri di mare, infatti, sono una specie protetta, tutelata da norme internazionali e soprattutto dalla convenzione di Washington per l’ambiente e per il commercio internazionale delle specie di fauna e di flora selvatiche minacciate di estinzione. Non possono essere pescati né tantomeno venduti.


La violazione del divieto è considerata un reato. Intanto gli agenti della Forestale hanno fatto scattare la denuncia penale nei confronti del commericante cinese residente a Napoli, già nei guai per la melamina e accusato anche di commercio illegale e detenzione di conchiglie vietate, poi gli atti d’indagine saranno inviati anche a Prato. Infatti, sui barattoli sotto sequestro c’è l’etichetta con il nome dell’importatore pratese Xie Xiao Lin che ha sede in via Pistoiese 140. Sarà la sezione di Prato della Forestale che verificherà se effettivamente l’azienda pratese abbia materialmente importato i frutti di mare dalla Cina e quindi sia perseguibile per lo stesso reato.

E nel mirino degli inquirenti finiranno anche le diciture contraffate che indicavano i datteri come vongole. In totale, gli imprenditori denunciati nel corso dell’operazione di Napoli sono stati sette.

Mentre il sequestro oltre al latte e ai molluschi, ha inoltre riguardato trecento chilogrammi di mozzarella cinese, cinquanta chili di prodotti caseari, più di cento chili di the al latte, novanta chili di papaia al latte e sette chili di zampe di gallina. Sono stati poi presi in consegna dai militari, dieci chili di carne bianca, molluschi, pesci essiccati e in lattine, circa cento chili di funghi lavorati privi di etichetta e cinquecento chili di uova lavorate oltre a 20mila chili di alimenti non conformi alla normativa europea sulla tracciabilità.

Ma non si tratta esclusivamente di alimentari. Sono stati sequestrati anche cerotti antidolorifici, cosmetici e medicinali per curare i problemi di stomaco. Tra i prodotti sequestrati e che saranno a breve distrutti numerosi prodotti di erboristeria e cosmesi. Tra questi spiccano il contraccettivo al viagra, i prodotti a base di olio essenziale ricavato dalle ghiandole del musco, un cervo cinese che fa parte di una specie protetta, nonché farmaci a base di «Saussurea costus», una radice che cresce sugli altipiani del Tibet, anch’essa a rischio estinzione, utilizzata come antidolorifico e soprattutto per patologie gastriche.


Napoli, 16 ottobre 2008 – Sequestrati anche farmaci e cosmetici made in Cina. Unguenti ricavati da specie protette e radici in via d’estinzione

Apcom

Cerotti antidolorifici, contraccettivi al viagra, cosmetici e medicinali per curare i problemi di stomaco. Anche questo è stato sequestrato questa mattina dalla forestale a Napoli nel corso dell’operazione ‘Lanterne rosse’ che ha portato al rinvenimento di quintali di prodotti made in Cina.

Tra i prodotti sequestrati e che saranno a breve distrutti numerosi prodotti di erboristeria e cosmesi. Tra questi spiccano il contraccettivo al viagra, i prodotti a base di olio essenziale ricavato dalle ghiandole del musco, un cervo cinese che fa parte di una specie protetta, nonchè farmaci a base di ‘Saussurea costus’, una radice che cresce sugli altipiani del Tibet, anch’essa a rischio estinzione, utilizzata come antidolorifico e soprattutto per patologie gastriche.

Tutti prodotti non conformi alla normativa europea sulla tracciabilità. Medicinali ed erbe, quindi, interdette dal mercato italiano destinate prevalentemente ai cittadini residenti in Campania e nel Meridione ma anche agli stessi italiani che spesso comprano in supermercati e bazar orientali.

I controlli e i sequestri sono stati compiuti con l’ausilio di personale della polizia provinciale di Napoli, dell’annona del Comune di Roma, delle aziende sanitarie Asl Napoli 1 e Asl Napoli 4 oltre che con l’ausilio degli esperti degli atenei partenopei Federico II e Orientale i cui interpreti sono stati utili per tradurre etichette e scatoloni della merce made in Cina.

L’operazione è scaturita dopo una serie di controlli di prodotti provenienti dalla Cina nel porto di Napoli, di merce all’ingrosso a Napoli e provincia, in ristoranti ed erboristerie oltre che sull’intera catena di distribuzione dei prodotti cinesi venduti in Italia.


Roma, 17 ottobre 2008 – CC sequestrano 2500 scarpe Nike “made in China”. Due denunciati
ASCA

I Carabinieri della Stazione Roma Tor Tre Teste hanno portato a termine un importante sequestro di scarpe sportive contraffatte. Oltre 2500 paia di scarpe sportive Nike, sono state sequestrate in un deposito della Borghesiana, per un valore di circa 112 mila euro destinate al mercato regolare e abusivo. Per questo i Militari hanno denunciato a piede libero 2 cinesi sorpresi, ieri pomeriggio, all’interno di un magazzino di via Circonvallazione Tiburtina, mentre scaricavano centinaia di scatole contenenti scarpe da ginnastica Nike, perfettamente contraffatte, provenienti dalla Cina. Tutta la merce sequestrata e’ di origine cinese, fatta arrivare in Italia all’interno di containers su navi approdate al porto di Napoli e da li’, poi, dirottata a Roma con dei Tir, destinata ad essere rivenduta tramite immigrati nordafricani, numerosi venditori abusivi e verosimilmente anche a rivenditori autorizzati di pochi scrupoli.


Napoli, 16 ottobre 2008 – Allarme per alimenti contaminati. Maxi sequestro di latte a Napoli

Gli agenti del Corpo forestale hanno sequestrato quindici quintali di latte proveniente dalla Cina. Per sapere se contenga qualche sostanza tossica si dovranno però aspettare gli esiti degli esami di laboratorio ma il ministro per l’agricoltura Luca Zaia conferma comunque che ”il latte cinese è sempre proibito sul territorio italiano e dunque va sequestrato”.


Allarme per alimenti contaminati
È arrivato anche in Italia l’allarme per il latte contaminato alla melamina. Per sapere se i dieci quintali sequestrati questa mattina a Napoli contengano quella o altre sostanze tossiche bisognerà aspettare una decina di giorni. “Ma il latte cinese – ha ricordato il ministro per l’agricoltura Luca Zaia nella conferenza stampa tenuta nel Comando provinciale del Corpo Forestale – è sempre proibito sul territorio italiano e dunque va sequestrato”. Imbottigliato in lattine di colore rosso, il latte proveniente dalla Cina era nascosto in un controsoffitto di un capannone-deposito di commercianti cinesi in via Argine, alla periferia orientale della città ed a poca distanza del centro commerciale “Cinamercato”. Nell’ operazione della Forestale di Napoli sono stati impegnati 120 uomini integrati dalla sezione investigativa Cites di Roma e da unità cinofile e 40 automezzi.

“Si tratta – ha detto il ministro Zaia, che ha definito ‘i nostri eroi’ gli agenti della Forestale – del più ingente sequestro di latte cinese compiuto nel nostro Paese”. Ma c’erano anche altri prodotti caseari nel capannone ed in alcuni negozi gestiti da commercianti cinesi, sette dei quali sono stati denunciati per frode alimentare ed importazione illegale: 300 chili di mozzarella, 50 di formaggi, e poi, in quantità minori, datteri di mare, pesce, carne e confezioni di frutta candita. “Il pesce – spiega il comandante provinciale della Forestale Vincenzo Stabile – aveva interrotto il ciclo del freddo ed era stato congelato e scongelato più di una volta. Tracciare un prodotto del genere diventa impossibile”. Ma l’ attenzione della Forestale, che sta inventariando i prodotti che non sono stati distrutti immediatamente dalla Asl, come il pesce, si concentra anche su alcuni prodotti farmaceutici: 26 confezioni di olio essenziale ricavato dal musco, un cervo che rientra tra le specie animali protette, ed un numero non quantificato di farmaci a base di “saussurea costus”, una radice che cresce sugli altipiani del Tibet utilizzata per patologie gastriche.

Il ministro Zaia ribadisce la linea della “tolleranza zero”. “Chi sofistica gli alimenti va trattato come un delinquente”, ma precisa, rivolgendosi alla comunità cinese che “non si bada alle etnie”. Soddisfazione anche dal sottosegretario alla salute Francesca Martini, che annuncia che presto le porte di accesso per i prodotti alimentari cinesi diretti al nostro territorio saranno ridotte a quattro per facilitare i controlli: gli aeroporti di Malpensa e Fiumicino, ed i porti di Genova e Napoli. Si sono avuti casi di container provenienti dalla Cina  – spiega il sottosegretario – con un carico dichiarato di mobili e giocattoli ed invece trasportavano prodotti alimentari.



06 ottobre 2008 – Forte terremoto colpisce il Tibet. Nove vittime vicino a Lhasa
La Repubblica

L’Asia centrale e il Tibet sono stati squassati tra ieri e oggi da una serie di forti scosse di terremoto, pare indipendenti tra loro, che hanno causato decine di vittime, 74 in Kirghizistan e almeno nove vicino alla capitale tibetana Lhasa, secondo gli ultimi bilanci ufficiali. I sismi hanno superato il sesto grado della scala Richter. Quello di questa sera in Tibet ha toccato la magnitudo 6,3.

In Kirghizistan ieri un sisma di magnitudo 6,3 della scala Richter ha colpito la zona meridionale del paese, al confine con la Cina, provocando 74 morti, di cui 41 bambini, e almeno un centinaio di feriti, di cui 60 gravi. Venticinque corpi sono già stati recuperati.

Nura, un villaggio di un migliaio di abitanti situato a 50 km dall’epicentro e a 180 km dal centro amministrativo della regione di Alati, è stato raso interamente al suolo, anche perchè le case erano fatte di paglia e argilla. Le infrastrutture dell’area sono state pesantemente danneggiate.

Ardua l’opera dei soccorritori nella zona, montagnosa e di difficile accesso, a circa 400 km dalla capitale Bishkek, dove sono state registrate scosse di magnitudo 4. Ma il sisma è stato avvertito anche in Tagikistan e Uzbekistan, anche se qui non risultano nè vittime nè danni. L’epicentro è stato localizzato a 27 km di profondità, in Tagikistan, non lontano dalla frontiera con la Cina.

Il presidente russo Dmitri Medvedev ha disposto che il governo invii aiuti umanitari ed ha espresso le sue condoglianze al presidente kirghizo Kurmanbek Bakiev, che ha proclamato un giorno di lutto nazionale e si è recato sul posto del disastro. Il premier kirghizo ha chiesto l’aiuto dell’Onu: serve di tutto, dalle tende alle coperte, dai medicinali ai cibo e all’acqua.

Oggi altre scosse sono state registrate nella regione cinese dello Xinjiang (magnitudo 5,7), nel centro dell’ Afghanistan (6) e in Tibet (6,3), nel distretto di Damxung, un’ottantina di km a ovest di Lhasa, dove il bilancio è di almeno nove vittime. In un primo tempo l’agenzia ufficiale Nuova Cina aveva fornito un bilancio di oltre 30 morti, poi lo ha rivisto al ribasso.

“Allo stato attuale delle conoscenze questi eventi sono da considerare separati”, ha spiegato il direttore della sezione di Sismologia e fisica tettonica dell’Istituto Nazionale italiano di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Antonio Piersanti.


Tibet, 06 ottobre, 2008 – Terremoto magnitudo 6.3 colpisce a 80 Km. da Lhasa, 30 morti
Il Giornale



Trenta morti. Questo il primo bilancio parziale dell’agenzia di stampa Nuova Cina della duplice scossa di terremoto in Tibet: la prima si è registrata nel pomeriggio ora locale, quando in Italia erano le 10,30 del mattino, e ha avuto un’intensità di 6,6 gradi sulla scala aperta Richter. Un secondo movimento tellurico, probabilmente di assestamento, ha fatto seguito una quindicina di minuti dopo, e ha raggiunto magnitudo 5,1. Lo ha reso noto il centro di controllo geologico degli Stati Uniti, secondo cui l’epicentro è stato localizzato circa 84 chilometri a est della capitale tibetana, Lhasa. In città la popolazione ha avvertito il sisma mentre nella contea di Qushui, prossima all’epicentro, gli edifici più alti hanno tremato e qualche vetro alle finestre si è infranto.

Anche in Cina Qualche ora prima il territorio cinese era stato investito da un fenomeno analogo, che aveva interessato in particolare la regione autonoma nord-occidentale dello Xinjiang. Scosse di elevata intensità sono state avvertite anche in Afghanistan e nelle repubbliche ex sovietiche del Tagikistan, dell’Uzbekistan e del Kirghizistan: in quest’ultimo Paese il bilancio più pesante, con almeno settanta morti accertati e oltre cento feriti tra le montagne del sud; raso al suolo il villaggio di Nura.

ASCA-AFP
Almeno 30 persone sono rimaste uccise nel forte terremoto che stamane ha scosso il Tibet. A renderlo noto sono fonti governative locali citate dai media nazionali cinesi.

Il sisma, di magnitudo 6.3, ha colpito una zona scarsamente popolata a 84 chilometri dalla capitale Lhasa.

Secondo quanto riferito dall’agenzia Xinhua, sono numerose le abitazioni della contea Damxung che sono andate distrutte.


09, settembre 2008 – San Suu Kyi pronta a sacrificare la vita per la democrazia
Articolo21, by Cecilia Brighi

Finite le Olimpiadi si sono spenti i riflettori sulla Cina, sulle sue responsabilità politiche  in Tibet e in Birmania e sulla violazione dei diritti umani e del lavoro nel paese della Città proibita. Si torna a parlare di altro. Ancora per un pochino si parlerà di Georgia e di Russia ma, già oggi, anche questa crisi sta sparendo dalle pagine dei giornali. Il 26 settembre  prossimo sarà commemorato, dai movimenti a sostegno della democrazia in Birmania, come l’anniversario delle manifestazioni fiume dei monaci buddisti e dei cittadini birmani che tanto hanno commosso l’opinione pubblica internazionale.

Tutti nel mondo si sono mobilitati, si sono vestiti di arancione come il colore delle tuniche dei monaci e hanno chiesto un impegno internazionale per la democrazia in questo paese, martoriato da decenni di durissima dittatura militare. Cosa hanno ottenuto? Ad un anno di distanza l’Unione Europea ha finalmente introdotto sanzioni economiche che però hanno lasciato fuori i settori chiave per la giunta militare: quello del gas e quello finanziario. Gli Usa e il Canada hanno fatto altrettanto. L’Asean ha introdotto una carta per i diritti umani che non è mai stata attuata dalla maggior parte dei paesi. Ancora oggi il Consiglio di sicurezza è bloccato dal veto cinese e russo e l’ennesima visita del rappresentante ONU Ibrahim Gambari non ha prodotto alcun risultato. Anzi, il rischio è che dopo il referendum farsa imposto dalla giunta militare, nonostante gli appelli internazionali e nonostante la data cadesse nel bel mezzo della peggiore crisi umanitaria della regione causata dall’uragano Nargis, la comunità internazionale pieghi la testa di fronte al fatto compiuto e cominci a ingoiare anche le elezioni programmate per il 2010.

La recente visita di sei giorni in Birmania dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Ibrahim Gambari ha  prodotto zero risultati. Egli ha accettato di incontrare le  autorità del Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (SPDC), diplomatici, personale di organizzazioni complici dell’SPDC e solo per un tempo residuale alcuni leader della Lega nazionale per la democrazia (NLD), ma non è riuscito ad incontrare il più alto esponente dell’SPDC, né la stessa Aung San Suu Kyi, che si è rifiutata, ritenendo che l’inviato speciale avesse fatto ben poco  per la sua liberazione e la ripresa di un serio dialogo per la democrazia.

Nel corso degli ultimi vent’anni i Segretari Generali delle Nazioni Unite, succedutisi nell’incarico hanno attuato una serie di iniziative per la risoluzione della crisi birmana, che tuttavia non hanno comportato nessun miglioramento tangibile per il paese. Ciò dimostra l’inadeguatezza della strategia dell’ONU per la risoluzione della crisi birmana.
E nonostante l’estrema sensazione di impotenza e di frustrazione tra le organizzazioni democratiche birmane la cosa ancora più drammatica da registrare e che dovrebbe far insorgere la politica e l’opinione pubblica internazionale è l’opposizione silenziosa della leader Aung San Suu Kyi , che contro lo strapotere della giunta militare che ha reiterato i suoi arresti domiciliari (dal 30 maggio 2003 dopo un attacco al suo convoglio  ed un massacro quello di Depajin), da circa tre settimane rifiuta cibo e visite. I pasti le vengono recapitati quotidianamente nella sua abitazione, ma l’ultimo giorno in cui ha accettato cibo è stato il 15 agosto 2008. Il persistere del rifiuto di accettare il cibo fornitole dai suoi compagni potrebbe seriamente compromettere il suo stato di salute. Altre due persone che vivono con Daw Aung San Suu Kyi rifiutano anch’esse di nutrirsi. Sarebbe più che urgente e necessario un intervento immediato della comunità internazionale. Ma ancora una volta il silenzio dei media e della politica è assordante.

Secondo Daw Aung San Suu Kyi devono esserci dei limiti, in particolare di natura temporale, alla tolleranza verso l’atteggiamento unilaterale della SPDC, quindi si arriva all’estrema necessità di sacrificare la propria vita, come  hanno fatto i martiri per la libertà del popolo birmano.
La Lega nazionale per la democrazia – Area Liberata ha  lanciato quindi un appello alla comunità internazionale “affinché sostenga San Suu Kyi per la soluzione della crisi birmana utilizzando tutti i mezzi necessari. Nello specifico, facciamo appello al Segretario Generale delle Nazioni Unite affinché si rechi in Birmania al più presto possibile con l’obiettivo di risolvere la crisi.”

Secondo i media ufficiali birmani la leader birmana  si è anche rifiutata di incontrare il suo medico personale e un ministro di alto livello come ulteriore segno della sua frustrazione rispetto allo stallo dei colloqui. Inoltre, nei giorni scorsi,  ha rifiutato di partecipare ad una riunione con il ministro dei rapporti con la leader , che era stato nominato per “facilitare” il dialogo per la riconciliazione, sostenuto dall’ONU.

Intanto, in questi stessi giorni, il Consiglio Nazionale dell’Unione Birmana (NCUB) ha lanciato una sfida politica alla giunta militare e sta chiedendo a New York e a tutti i governi membri dell’ONU di sostenere il ritiro delle credenziali della giunta alla prossima Sessione della Assemblea Generale ONU, che avrà inizio il 16 settembre prossimo.

La giunta non ha mai cercato di tutelare il proprio popolo nè di adottare le promesse riforme  verso la democrazia.

“Noi chiediamo  alle nazioni del mondo di collaborare con noi e di aiutarci attivamente nel nostro tentativo. Per decadi il popolo birmano ha chiesto riforme politiche, ma i regimi militari che si sono succeduti sono stati riconosciuti come i governi più repressivi e segreti al mondo, che hanno agito con le uccisioni extragiudiziali, le intimidazioni e l’oppressione per raggirare gli impegni e mantenere il potere attraverso la forza bruta.”

Così inizia l’appello della NCUB che ricorda come nell’ultimo anno la comunità internazionale ha potuto essere testimone delle numerose dimostrazioni delle tattiche brutali della SPDC per mantenere il potere, compreso la repressione attuata nei confronti dei cittadini e dei monaci buddisti che chiedevano le riforme e la democrazia, la continua noncuranza delle profonde sofferenze del popolo birmano a seguito del devastante ciclone Nargis e il fraudolento referendum costituzionale .

Il movimento democratico birmano unito chiede agli stati membri dell’ONU di schierarsi per i principi della democrazia e dei diritti umani e di rifiutare le credenziali  alla delegazione dell’SPDC presso l’ONU durante la prossima sessione della Assemblea Generale. Cosa farà il governo italiano? Aspetterà di vedere che posizione assumeranno gli altri per schierarsi con la maggioranza o avrà il coraggio di farsi promotore di una iniziativa che chiede di non accettare le credenziali dei macellai di Rangoon? Cosa farà l’ambasciatore italiano in Birmania? Chiederà di incontrare la leader birmana per verificare le sue condizioni di salute, chiederà con urgenza la sua liberazione o rimarrà chiuso e silenzioso in ambasciata?

Quale posizione adotterà l’Italia rispetto alla proposta che sta ventilando la Francia, come presidente di turno della UE, di sospendere il rifiuto di visti alla giunta militare e di addolcire le sanzioni per “attrarre i militari a riprendere il dialogo”, ben sapendo che questa arma è spuntata da ormai anni di ipocrite finte aperture?

Chiederemo con urgenza un’azione ed una visita di Ban Ki Moon in Birmania con una lista di richieste chiare nei confronti della giunta, a partire dalla liberazione immediata della Signora e degli altri detenuti politici?

O dobbiamo aspettare un altro lutto, questa volta per la scomparsa di una donna autorevole, di un’eroina silenziosa e sola, per indignarci un pochino e per un po’, prima di un’altra crisi in qualche altra parte del mondo o delle stanche e poco interessanti beghe interne ai partiti di maggioranza e di opposizione?

E’ urgente una mobilitazione dell’opinione pubblica. E’ urgente un rinnovato impegno del governo italiano, del neonato comitato interparlamentare bipartisan Amici della Birmania, al fine di decidere, prima del 16 di settembre come muoversi all’ONU, quale mandato dare all’ambasciatore italiano presso le Nazioni Unite per convincere gli altri paesi membri a sostenere il ritiro delle credenziali della giunta, cosa fare al Consiglio di Sicurezza, cosa fare alla prossima riunione dei ministri UE.
E’ anche e soprattutto su questioni del genere che si verifica l’autorevolezza di un governo e della sua opposizione, sul piano internazionale. E’ ora di agire: questo mese segna molti appuntamenti. Bisogna esserci con la forza delle idee e delle proposte e non con un atteggiamento timido e remissivo.
Non basta più esporre la foto della Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi  sulle principali piazze italiane.  Bisogna che la politica e l’opinione pubblica si mobilitino.


24 luglio 2008 – Rapporto sulla pena di morte nel mondo: sintesi dei fatti più importanti del 2007
nessunotocchicaino.it



La Moratoria Onu delle esecuzioni

Il 18 dicembre 2007, la 62ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato con 104 voti a favore, 54 contrari e 29 astensioni una Risoluzione che chiede agli Stati membri di “stabilire una moratoria delle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pena di morte.”

Con questa Risoluzione, presentata dall’Italia insieme ad altri 86 paesi rappresentativi di tutti i continenti, le Nazioni Unite stabiliscono per la prima volta il principio fondamentale che la pena di morte attiene alle questioni del rispetto dei diritti umani e il suo superamento ne rappresenta un importante progresso.
L’approvazione della Risoluzione rappresenta il coronamento di una campagna condotta per oltre 15 anni da Nessuno tocchi Caino e dal Partito Radicale Nonviolento che, nel 2007, hanno deciso di dare un maggiore impulso alla campagna coinvolgendo parlamenti, governi e opinione pubblica di tutto il mondo, attraverso numerose azioni nonviolente: dallo sciopero della sete di Marco Pannella nella campagna “Nessuno tocchi Saddam” poi rilanciata sull’obiettivo più generale della Moratoria Universale delle esecuzioni, ai due scioperi della fame “ad oltranza” – il primo durato 64 giorni, il secondo 25, per complessivi 89 giorni – che numerosi dirigenti e militanti radicali hanno condotto per ottenere la presentazione della Risoluzione pro Moratoria al Palazzo di Vetro.

Nel 1994, il Governo di Silvio Berlusconi aveva presentato, per la prima volta nella storia, una risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La risoluzione non fu approvata per soli 8 voti!

Nel 1997, il Governo di Romano Prodi ha presentato la Risoluzione pro Moratoria alla Commissione dell’ONU per i Diritti Umani di Ginevra che l’ha approvata con la maggioranza assoluta dei voti. Da allora, ogni anno e fino al 2005, la risoluzione è stata sempre approvata dalla Commissione di Ginevra ed è anche grazie a questo se la situazione della pena di morte nel mondo risulta oggi radicalmente cambiata, il numero dei paesi mantenitori della pena di morte essendo passato dai 98 nel 1994 ai 49 di oggi.

La situazione ad oggi

L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre dieci anni, si è confermata anche nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008.
I paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 148. Di questi, i paesi totalmente abolizionisti sono 95; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 8; 1 paese, la Russia, in quanto membro del Consiglio d’Europa è impegnato ad abolirla e, nel frattempo, attua una moratoria delle esecuzioni; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 3; i paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono cioè sentenze capitali da oltre dieci anni, sono 41.

I paesi mantenitori della pena di morte sono 49, a fronte dei 51 del 2006 e dei 54 del 2005. Nel 2007, è diminuito il numero di paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali: sono stati 26, a fronte dei 28 del 2006.

Ciò nonostante, è aumentato il numero delle esecuzioni nel mondo. Nel 2007 vi sono state almeno 5.851, a fronte delle almeno 5.635 del 2006 e delle 5.494 del 2005. L’incremento significativo rispetto all’anno precedente è dovuto in pratica alla escalation di esecuzioni registrate in Iran dove sono aumentate di un terzo e in Arabia Saudita dove sono quadruplicate.

Nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008 non si sono registrate esecuzioni in 3 paesi che le avevano effettuate nel 2006: Nigeria (almeno 7), Giordania (almeno 4) e Uganda (2).

Ancora una volta, l’Asia si è confermata essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se contiamo che in Cina vi sono state almeno 5.000 esecuzioni (anche se diminuite rispetto all’anno precedente), il dato complessivo del 2007 corrisponde ad almeno 5.782 esecuzioni, in netto aumento rispetto al 2006 quando erano state almeno 5.492 e al 2005, quando erano state registrate almeno 5.413 esecuzioni.
Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico paese del continente che ha compiuto esecuzioni nel 2007: 42 le persone giustiziate (erano state 53 nel 2006 e 60 nel 2005).

In Africa, nel 2007 la pena di morte è stata eseguita in 7 paesi – Botswana (almeno 1), Egitto (numero imprecisato), Etiopia (1), Guinea Equatoriale (3), Libia (almeno 9), Somalia (almeno 5) e Sudan (almeno 7) – dove sono state registrate almeno 26 esecuzioni contro le 87 del 2006 e le 19 del 2005 effettuate in tutto il continente. Da notare che l’Etiopia non eseguiva sentenze capitali dal giugno del 1998, mentre l’Uganda, che nel 2006 ha giustiziato due persone, non ha effettuato esecuzioni nel 2007 e nel 2008.

In Europa, la Bielorussia continua a costituire l’unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte. Almeno una esecuzione è stata effettuata nel 2007 e altre tre nei primi mesi del 2008.

Cina, Iran e Arabia Saudita i primi paesi boia del 2007

Dei 49 mantenitori della pena di morte, 39 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In 21 di questi paesi, nel 2007, sono state compiute almeno 5.798 esecuzioni, pari al 99% del totale mondiale.
Un paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 5.000, circa l’85,4% del totale mondiale; l’Iran ne ha effettuate almeno 355; l’Arabia Saudita 166; il Pakistan almeno 134; l’Iraq almeno 33; il Vietnam almeno 25; l’Afghanistan 15; lo Yemen almeno 15; la Corea del Nord almeno 13; la Libia almeno 9; la Siria e il Sudan almeno 7; il Bangladesh 6; la Somalia almeno 5; la Guinea Equatoriale 3; Singapore 2; la Bielorussia e il Kuwait almeno 1; l’Etiopia 1. Esecuzioni sarebbe avvenute anche in Egitto e Malesia, ma il loro numero è imprecisato.
Molti di questi paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, che in alcuni casi è coperta dal segreto di Stato, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
A ben vedere, in tutti questi paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Sul terribile podio dei primi tre paesi che nel 2007 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano quindi tre paesi autoritari: la Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita.

Cina, primatista di esecuzioni (anche se in diminuzione)

La pena di morte continua ad essere considerata in Cina un segreto di Stato ma nel corso del 2007 e dei primi mesi del 2008 si sono succedute notizie in base alle quali le condanne a morte emesse nel 2007 dai tribunali cinesi sarebbero diminuite rispetto all’anno precedente, fino al 30%.

Il dato è emerso il 9 maggio 2008, nel corso di un forum svoltosi nella provincia cinese di Liaoning, che ha visto giuristi, ricercatori e magistrati di Cina e Gran Bretagna affrontare il tema dell’abolizione o della limitazione della pena di morte. Secondo Li Wuqing, giudice presso il 1° tribunale penale della Corte Suprema del Popolo, la restituzione alla stessa Corte del potere esclusivo di approvare le condanne a morte ha portato i tribunali del paese a gestire i casi capitali in maniera più prudente.

In base alla riforma entrata in vigore il 1° gennaio 2007, ogni condanna a morte emessa in Cina da tribunali di grado inferiore deve essere rivista da un panel di tre giudici della Corte Suprema, che hanno il compito di controllare fatti, norme applicate e procedure seguite, oltre a fare il raffronto con i precedenti.

La stessa Corte Suprema cinese, l’unica a conoscere il numero esatto delle condanne a morte e delle esecuzioni, ha comunicato di aver annullato il 15% delle condanne a morte emesse dai tribunali di grado inferiore nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008, “per le circostanze non chiare alla base del giudizio di colpevolezza, prove insufficienti, pena inappropriata, procedure illegali e altri motivi.”

Per quanto riguarda le esecuzioni, nel 2007 ne sono state effettuate almeno 5.000. Sarebbero state circa 6.000 secondo la Fondazione Dui Hua, che ha stimato una riduzione pari a un 25-30% rispetto all’anno precedente (ne aveva stimate almeno 7.500 nel 2006), diminuzione che dipenderebbe anche dall’assegnazione a Pechino delle Olimpiadi del 2008.

Iran, di nuovo secondo sul podio della disumanità

Anche nel 2007, l’Iran si è piazzato al secondo posto quanto a numero di esecuzioni, dopo la Cina. Almeno 355 persone sono state messe a morte, un terzo in più rispetto al 2006 quando le esecuzioni erano state almeno 215. E l’escalation non sembra destinata a diminuire tenuto conto che, al 30 giugno, le esecuzioni nel 2008 erano già almeno 127.

I dati reali sulle esecuzioni potrebbero essere ancora più alti, perché le autorità non forniscono statistiche ufficiali e i numeri riportati sono relativi alle sole notizie pubblicate dai giornali iraniani o direttamente fornite da organizzazioni umanitarie, che evidentemente non riportano tutte le esecuzioni
.
Condanne alla lapidazione sono state eseguite anche nel 2007, contrariamente a quanto assicurato nel novembre 2006 dal Ministro della Giustizia iraniano Jamal Karimi-Rad, che aveva ribadito che l’Iran non effettua lapidazioni. Il 5 luglio 2007, un uomo è stato lapidato dopo essere stato condannato a morte per adulterio e aver trascorso 11 anni in carcere.

Nel corso del 2007, in Iran sono stati giustiziati 4 donne e almeno 7 persone minori di diciotto anni al tempo del crimine, un fatto quest’ultimo che pone il paese in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure ha ratificato. Al 1° luglio, almeno altri 3 minorenni sono stati giustiziati in Iran nel 2008.

Anche nel 2007 e nei primi mesi del 2008 sono continuate le esecuzioni di massa.
Tra il 15 luglio e il 2 agosto 2007, 38 persone sono state giustiziate in 9 diverse città iraniane, 16 in pubblico e 12 esecuzioni sono state trasmesse in televisione. Tra queste quelle avvenute il 1° agosto 2007, relative a sette uomini impiccati sulla pubblica piazza a Mashad, nell’est del Paese, per rapina, atti di banditismo, sequestro di persona, violenza carnale e ‘atti contro la moralità’. Fonti iraniane in esilio hanno detto che alcuni tra i 16 impiccati in pubblico, etichettati come “i più famosi Hooligans di Teheran,” sono in realtà stati giustiziati perché omosessuali.
Il 5 settembre 2007, le autorità iraniane hanno impiccato in una sola giornata 21 persone.

L’Iran ha salutato il 2008 con 23 impiccagioni compiute nei primi dieci giorni del nuovo anno. Il solo 20 febbraio 2008, dieci persone sono state impiccate per rapina a mano armata e omicidio. Secondo le stesse autorità, molte esecuzioni in Iran sono relative a reati di droga, ma è opinione di osservatori sui diritti umani che molti giustiziati per reati comuni, in particolare per droga, possano essere in realtà oppositori politici.

Arabia Saudita, esecuzioni quadruplicate nel 2007

L’Arabia Saudita ha un numero di esecuzioni tra i più alti al mondo in termini assoluti, ma risulta il primo in percentuale sulla popolazione. Le esecuzioni nel 2007 sono state 166, più del quadruplo rispetto alle 39 effettuate nel 2006. Nel 2008, al 30 giugno, le esecuzioni erano già giunte a 65. Il record era stato stabilito nel 1995 con 191 esecuzioni. Le esecuzioni avvengono in pubblico e tramite decapitazione. Sono effettuate in cortili fuori le moschee più frequentate delle principali città dopo la preghiera del venerdì.

Quasi i due terzi delle persone giustiziate sono stranieri, provenienti quasi tutti dai paesi poveri del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. Agli imputati è spesso negata l’assistenza di un avvocato prima del processo e la rappresentanza legale in aula. Nel 2007, sono stati giustiziati almeno tre minorenni, incluso un quindicenne condannato per un reato che avrebbe commesso a 13 anni.

Delle 166 esecuzioni del 2007, almeno 50 sono state effettuate per reati di droga. Al 30 giugno 2008 le persone decapitate per reati di droga erano almeno 22.

Democrazia e pena di morte

Dei 49 paesi mantenitori della pena di morte, sono solo 10 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto.

Le democrazie liberali che nel 2007 hanno praticato la pena di morte sono state 4 e hanno effettuato in tutto 53 esecuzioni, pari all’1% del totale mondiale: Stati Uniti (42), Giappone (9), Indonesia e Botswana (almeno 1). Esecuzioni sarebbero avvenute anche in Mongolia.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, sono due gli eventi principali che nel 2007 hanno riguardato la pena di morte: la decisione della Corte Suprema sulla legittimità dell’iniezione letale e l’abolizione della pena di morte nel New Jersey.
Dopo molti anni di discussioni e di ricorsi, i dubbi sul metodo dell’iniezione letale hanno finalmente investito la Corte Suprema degli Stati Uniti e di fatto portato a una sospensione delle esecuzioni in molti Stati che è iniziata il 25 settembre del 2007, quando la Corte ha deciso di discutere il caso “Baze contro Rees” proveniente dal Kentucky. Questo ha fatto sì che le esecuzioni del 2007 negli Stati Uniti siano scese a 42, il numero più basso degli ultimi 13 anni.

La moratoria di fatto si è protratta per otto mesi fino al 6 maggio 2008, quando un uomo è stato giustiziato in Georgia, dopo che, il 16 aprile, la stessa Corte ha stabilito che il cocktail di sostanze letali usato nella gran parte degli Stati Usa non rappresenta una punizione “crudele e inusuale” e quindi non è contrario alla Costituzione americana. Dopo l’esecuzione in Georgia, altre 9 iniezioni letali sono state praticate, al 1° luglio 2008, in sette Stati: Mississippi, Virginia (2), di nuovo Georgia, South Carolina (2), Texas, Oklahoma e Florida.

L’altro evento del 2007 è stato l’abolizione della pena di morte nel New Jersey, il primo Stato Usa a farlo in quarant’anni. In Nebraska, New Mexico, Montana, Colorado e Maryland la pena di morte è andata vicina all’abolizione, mentre l’Illinois, per l’ottavo anno consecutivo, ha rispettato la moratoria delle esecuzioni stabilita nel 2000. Seppure senza una abolizione formale, anche lo Stato di New York va annoverato tra gli Stati che non hanno più la pena di morte, in quanto, dal 2007, il braccio della morte dello Stato è completamente vuoto.

Sul fronte opposto, nel 2007, il South Dakota ha effettuato la prima esecuzione dopo 60 anni di sospensione di fatto, mentre leggi per espandere la pena di morte o renderne più facile l’applicazione sono state approvate in Utah e Texas. In Massachusetts è stato respinto il tentativo di reintrodurla, mentre leggi per espandere la pena di morte o renderne più facile l’applicazione sono state respinte in Georgia, Missouri, New York e Virginia.

Le condanne a morte nel 2007 sono state 110, il numero più basso da quando la pena capitale è stata reintrodotta nel 1976. Nel 2006 le condanne a morte erano state 115, e 138 nel 2005. Negli anni 90 il numero di condanne a morte era stabilmente attorno alle 300 l’anno. Iniziò a diminuire nel 1999, con 284. Da allora, lentamente ma costantemente, le condanne sono diminuite di oltre il 61%.

Quanto ai singoli Stati, anche nel 2007 e per il quinto anno consecutivo, l’Alabama ha registrato il più alto tasso di condanne a morte. Con una popolazione di 4,5 milioni di persone, l’Alabama ha infatti emesso 13 nuove condanne a morte. Il Texas ne ha emesse 11, ma ha una popolazione di 23,5 milioni, cinque volte maggiore. Il confinamento della pena di morte a un numero relativamente basso di Stati è risultato particolarmente evidente nel 2007: 40 dei 50 Stati non hanno effettuato esecuzioni. Come di consueto, le esecuzioni sono concentrate al Sud (86%), e come al solito in un solo Stato, il Texas, che con le sue 26 esecuzioni, 2 più dell’anno precedente, ha registrato da solo il 62% di tutte le esecuzioni negli Usa. Oltre alle 26 esecuzioni del Texas, 3 sono state compiute in Alabama e Oklahoma, 2 in Indiana, Ohio e Tennessee, 1 in Arizona, Georgia, South Carolina e South Dakota. Nel 2007 ci sono state diverse commutazioni di condanne a morte in altrettanti ergastoli senza condizionale: 8 nel New Jersey a seguito dell’abolizione della pena di morte, 3 in Texas, e 1 in Kentucky, New York, Missouri, Oklahoma e Tennessee. Il numero complessivo di detenuti nei bracci della morte è salito a 3.350, contro i 3.344 del 2006. Per quanto sia leggermente aumentato, il dato è comunque positivo, perché l’aumento di 6 unità è dovuto alla diminuzione delle esecuzioni, non a un aumento delle condanne che invece, come abbiamo visto, sono diminuite di 5 unità. Gli Stati i cui bracci della morte superano le 100 unità sono: California (660), Texas (393), Florida (397), Pennsylvania (226), Alabama (195), Ohio (191), North Carolina (185), Arizona (124), Georgia e Tennessee (107). I sondaggi non hanno segnalato importanti cambiamenti. Il tradizionale Sondaggio annuale  della Gallup ha riportato un 69% di favorevoli alla pena di morte, in linea con il 67% dell’anno precedente. Ma come avviene ormai da alcuni anni, la percentuale cambia vistosamente quando invece della domanda “secca” pro o contro la pena di morte, viene aggiunta l’opzione dell’ergastolo senza condizionale (ossia senza alcuna possibilità di liberazione anticipata per buona condotta). Quando gli statunitensi vengono chiamati a scegliere tra pena di morte ed ergastolo senza condizionale, allora la percentuale cambia di molto, e scende sotto il 50%.

In Giappone, nel 2007, sono state giustiziate 9 persone, a fronte delle 4 del 2006, mentre nei primi sei mesi del 2008 sono già avvenute 10 esecuzioni. Con il nuovo Ministro della Giustizia, Kunio Hatoyama, entrato in carica nell’agosto 2007 ed esplicito sostenitore della pena capitale, i principi e i tabù che il Giappone ha mantenuto nei riguardi della pena di morte si sono andati sempre più rompendo. Nel dicembre 2007, con le prime esecuzioni del governo di Fukuda, il Ministro della giustizia ha rotto con la tradizione, che voleva il segreto sulle esecuzioni, pubblicando i nomi e i crimini di tre prigionieri giustiziati. Quando sono state effettuate le prime tre esecuzioni del 2008, in febbraio, il ministro Hatoyama, che le aveva ordinate, ha espresso personalmente il suo punto di vista sulla pena di morte in una conferenza stampa. Lo stesso ha fatto per le quattro impiccagioni effettuate in aprile e le altre tre avvenute a giugno. Anche la tradizione di non eseguire sentenze capitali mentre il parlamento è in sessione, è stata rotta. Ciascuna delle quattro serie di esecuzioni, decise dall’attuale governo, hanno avuto luogo durante una sessione dell’assemblea legislativa. Con le tre ultime impiccagioni del 17 giugno 2008, si “riducono” a 102 i prigionieri del braccio della morte.

In Indonesia, le esecuzioni sono state abbastanza rare fino al 2004 quando, nel quadro di una campagna nazionale contro l’abuso e lo spaccio di droga lanciata dall’allora Presidente Megawati Sukarnoputri in vista delle elezioni di ottobre, tre cittadini stranieri sono stati fucilati per traffico di eroina. Almeno una persona è stata giustiziata in Indonesia nel 2007, ma nel 2008 si è registrata una escalation: al 18 luglio, erano già state messe a morte sei persone. Tre uomini erano stati giustiziati nel 2006. Nel 2005, erano state messe a morte due persone.

In Botswana, la pena di morte è in vigore da quando il paese è divenuto indipendente dalla Gran Bretagna nel 1966. Da allora sono state giustiziate 40 persone. Le impiccagioni sono effettuate di solito senza alcun preavviso, senza che avvocati e familiari siano informati. Anche l’ultima esecuzione nota in Botswana è avvenuta in segreto. Il 2 novembre 2007, Sepeni Thubisane Popo è stato impiccato per l’omicidio di una donna. Né l’avvocato né la famiglia del condannato sono stati avvertiti che l’uomo era in procinto di essere giustiziato. “Alcune persone mi hanno detto di aver appreso la notizia dell’esecuzione da Radio Botswana, nel notiziario dell’ora di pranzo,” ha detto l’avvocato.

Europa libera dalla pena di morte, eccetto Bielorussia e Russia

L’Europa sarebbe un continente totalmente libero dalla pena di morte se non fosse per la Bielorussia, paese che anche dopo la fine dell’Unione Sovietica non ha mai smesso di condannare a morte e giustiziare i suoi cittadini. Secondo quanto reso noto dalla Corte Suprema, una esecuzione è stata effettuata nel novembre del 2007 e altre tre nel febbraio del 2008. Secondo i dati OSCE vi sarebbero state almeno 3 esecuzioni nel 2006 e 4 nel 2005.

La Russia, sebbene ancora paese mantenitore, è impegnata ad abolire la pena di morte in quanto membro del Consiglio d’Europa e, nel frattempo, attua una moratoria delle esecuzioni.

Per quanto riguarda il resto dell’Europa, l’Albania, con la ratifica nel febbraio 2007 del 13° Protocollo alla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali relativo all’abolizione delle pena di morte in ogni circostanza, è divenuta completamente abolizionista. A parte la Lettonia, che prevede la pena di morte solo per reati commessi in tempo di guerra, tutti gli altri paesi europei hanno abolito la pena di morte in tutti i casi.

Abolizioni legali, di fatto e moratorie

Il trend mondiale verso l’abolizione di diritto o di fatto della pena di morte in corso ormai da oltre dieci anni ha trovato una decisa conferma anche nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008. Ben 9 paesi hanno cambiato status rafforzando il fronte a vario titolo abolizionista.

Il Ruanda, da mantenitore è divenuto un paese abolizionista nel luglio del 2007 con l’entrata in vigore della legge che abolisce la pena di morte per tutti i crimini.
Il Kirghizistan, dopo anni di moratoria, ha abolito totalmente la pena di morte nel gennaio del 2007.

L’Uzbekistan è passato da mantenitore ad abolizionista il 1° gennaio 2008.
Nel 2007, Comore, Corea del Sud, Guyana e Zambia, hanno superato dieci anni senza praticare la pena di morte e quindi vanno considerati abolizionisti di fatto.
Le Isole Cook da abolizioniste per crimini ordinari sono divenute totalmente abolizioniste nel 2007.

L’Albania da abolizionista per crimini ordinari è divenuta abolizionista per tutti i reati con la ratifica del 13° Protocollo della Convenzione Europea sui Diritti Umani entrato in vigore il 1° giugno 2007.

In Francia e in Italia la pena di morte è stata cancellata anche dalla Costituzione nel 2007.

Come già ricordato, nel 2007, il New Jersey è diventato il primo Stato della federazione americana in quarant’anni ad abolire la pena di morte.

Nel 2007 e nei primi mesi del 2008, ulteriori passi verso l’abolizione o sviluppi positivi si sono verificati per lo più in Africa: Burundi, Gabon, Mali, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania.

Nel maggio del 2007, il Kazakistan ha emendato la Costituzione abolendo la pena di morte per tutti i reati eccetto alcuni atti di terrorismo e crimini gravi commessi in tempo di guerra.

Una sentenza che sancisce l’incostituzionalità della pena di morte obbligatoria è stata pronunciata nel 2007 in Malawi.

Vi sono poi state amnistie collettive in paesi come in Camerun, Congo, Ghana, Marocco, Nigeria e Thailandi, dove da tempo è in corso una riflessione sull’opportunità di abolire o sospendere la pena di morte.

Nell’aprile 2008, Cuba ha annunciato la commutazione di tutte le condanne a morte. Nei primi di luglio 2008, il Pakistan ha deciso la conversione delle condanne a morte in ergastolo a beneficio di circa 7.000 prigionieri.

Per il secondo anno consecutivo Taiwan non ha effettuato esecuzioni.

Ripristino della pena di morte e ripresa delle esecuzioni

Sul fronte opposto, nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008, solo 2 Stati, Afghanistan ed Etiopia, hanno ripreso a praticare la pena di morte dopo alcuni anni di sospensione, in rapporto ai 6 del 2006.

Nel febbraio del 2008, il parlamento del Guatemala ha approvato una legge che pone fine alla moratoria delle esecuzioni capitali in atto dal 2002, ma il Presidente Alvaro Colom ha posto il veto.

In Perù è stata respinta dal Parlamento la proposta del Presidente Alan García di reintroduzione della pena di morte.

Negli Stati Uniti, il South Dakota ha effettuato la prima esecuzione dopo 60 anni di sospensione di fatto.

Pena di morte in base alla Sharia

Nel 2007, almeno 754 esecuzioni, contro le 546 dell’anno prima, sono state effettuate in 15 paesi a maggioranza musulmana, molte delle quali ordinate da tribunali islamici in base a una stretta interpretazione della Sharia. Sono 19 i paesi mantenitori che hanno nei loro ordinamenti giuridici richiami espliciti alla Sharia. Ma il problema non è il Corano, perché non tutti i paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria Carta fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti o autoritari al fine di impedire qualsiasi processo democratico.

Dei 49 paesi a maggioranza musulmana nel mondo, 24 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 25, dei quali 15 l’hanno praticata nel 2007. Lapidazione, impiccagione, decapitazione e fucilazione, sono stati i metodi con cui è stata applicata la Sharia nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008.

Condanne a morte tramite lapidazione sono state emesse ma non eseguite negli Emirati Arabi Uniti e in Nigeria. In Iran, invece, un uomo è stato lapidato nel luglio del 2007, dopo essere stato condannato a morte per adulterio e aver trascorso 11 anni in carcere. Tre uomini e due donne sono stati lapidati in Pakistan, ma si è trattato di esecuzioni extra-giudiziarie, effettuate su ordine di giurie tribali.

Un’alternativa alla lapidazione, in esecuzione di sentenze capitali in base alla Sharia, può essere l’impiccagione, la quale è preferita per gli uomini ma non risparmia le donne. L’impiccagione è spesso eseguita in pubblico e combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione. È quel che è accaduto in alcuni casi in Iran e in Sudan.
Impiccagioni in base alla Sharia sono state effettuate nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008 in Iran, Iraq, Kuwait, Pakistan, Siria e Sudan.

Il metodo della decapitazione è un’esclusiva dell’Arabia Saudita, il paese islamico che segue l’interpretazione più rigida della legge coranica. Di solito l’esecuzione avviene nella città dove è stato commesso il crimine, in un luogo aperto al pubblico vicino alla moschea più grande. Il condannato viene portato sul posto con le mani legate e costretto a chinarsi davanti al boia, il quale sguaina una lunga spada tra le grida della folla che urla “Allahu Akbar!” (“Dio è grande”). A volte, alla decapitazione segue anche l’esposizione in pubblico del corpo del giustiziato.

Non propriamente una punizione islamica, la fucilazione è pure stata applicata in esecuzione di condanne ispirate dalla Sharia in Afghanistan, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Yemen, Libia e Somalia.

Particolarmente grave è quel che è accaduto in Afghanistan il 7 ottobre 2007, dopo due anni in cui non si erano registrate esecuzioni. Quindici persone sono state giustiziate a colpi d’arma da fuoco nella capitale Kabul, per reati comprendenti omicidio, sequestro e rapina a mano armata. Dopo l’inizio della fucilazione, ci sono voluti altri cinque minuti per uccidere l’ultimo dei 15 condannati a morte. Scontrandosi l’uno con l’altro, bendati nel buio, incappucciati, incatenati e con le manette, alcuni di loro sono sopravvissuti dopo la fucilazione perpetrata dai 10 membri del plotone. Nel caos generale, Timur Shah, forse il più noto criminale del paese, condannato per omicidio, sequestro e stupro, è riuscito a fuggire, forse, con la complicità di guardie corrotte. La carneficina è avvenuta alle nove e mezza di sera sul ciglio di una strada alla periferia di Kabul. I corpi dei giustiziati erano così terribilmente mutilati che in alcuni casi è stato impossibile identificarli.

Secondo la legge islamica, i parenti della vittima di un delitto possono richiedere un compenso in denaro, detto “prezzo del sangue”, per graziare l’autore del fatto oppure permettere che l’esecuzione della pena abbia luogo. Casi relativi al “prezzo del sangue” si sono risolti col perdono o con l’esecuzione in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Libia e Pakistan.

In alcuni paesi islamici, la pena capitale è stata estesa in base alla Sharia anche ai casi di blasfemia, cioè può essere imposta a chi offende il profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture. I non-musulmani non possono fare proseliti e alcuni Governi proibiscono ufficialmente i riti religiosi pubblici da parte di non-musulmani. Convertire dall’Islam ad altra religione o rinunciare all’Islam è considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale.

Nel 2007 e nei primi mesi del 2008, condanne a morte per blasfemia e apostasia sono state emesse in Afghanistan e in Pakistan. In Arabia Saudita un egiziano è stato decapitato perché ritenuto colpevole di adulterio e di “stregoneria” oltre che di dissacrazione del Corano.

Pena di morte nei confronti di minori

Applicare la pena di morte a persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato è in aperto contrasto con quanto stabilito dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo.
Nel 2007, sono stati giustiziati almeno 12 minorenni: in Iran (almeno 7), Arabia Saudita (3), Pakistan (1) e Yemen (1). Nel 2006, le esecuzioni di minori erano state almeno 8, di cui 7 in Iran e 1 in Pakistan. Al 1° luglio, almeno 3 minori erano stati giustiziati nel 2008 in Iran. Condanne a morte nei confronti di minorenni al momento del reato sono state emesse, oltre che nei suddetti paesi, negli Emirati Arabi Uniti e in Sudan.

La “guerra alla droga”

Il proibizionismo sulle droghe ha dato un contributo notevole alla pratica della pena di morte anche nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008. Nel nome della “guerra alla droga” e in base a leggi sempre più restrittive, sono state effettuate esecuzioni in Arabia Saudita, Cina, Kuwait, Indonesia, Iran, Corea del Nord, Singapore e Vietnam. Condanne a morte sono state pronunciate, anche se non eseguite, in Algeria, Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, Malesia, Pakistan, Qatar, Siria, Sri Lanka e Thailandia.

Delle 166 esecuzioni del 2007 in Arabia Saudita, 50 sono state effettuate per reati di droga. Al 30 giugno, le persone decapitate nel 2008 per reati di droga erano almeno 22.

In Cina, il numero di esecuzioni per reati di droga è apparentemente diminuito rispetto al 2006. Si può ritenere che ciò sia stato anche l’effetto della riforma del gennaio 2007 che ha riconsegnato alla Corte Suprema del Popolo il potere esclusivo di revisione ultima di tutte le condanne a morte, oltre che per le direttive della Corte Suprema cinese che ha stabilito che la pena di morte vada inflitta solo a “un numero estremamente ridotto di criminali efferati.” In ogni caso, come è sempre accaduto in Cina, condanne a morte ed esecuzioni sono aumentate sensibilmente in prossimità di feste nazionali e di date simboliche internazionali.

L’unica impiccagione che risulta nel 2007 in Kuwait, è avvenuta per traffico di droga. Le due esecuzioni effettuate in Indonesia nei primi sei mesi del 2008, sono avvenute per traffico di droga.

Secondo le stesse autorità, molte esecuzioni in Iran sono relative a reati di droga, ma è opinione di osservatori sui diritti umani che molti giustiziati per reati comuni, in particolare per droga, possano essere in realtà oppositori politici. Dei 355 giustiziati in Iran nel 2007, almeno 138 persone, tra cui un minorenne, erano state condannate per traffico di droga.

Dei 13 giustiziati in Corea del Nord nel 2007, almeno 5 erano stati condannati per traffico di droga. Singapore è ritenuto essere uno dei paesi con la più alta percentuale di esecuzioni rispetto alla popolazione. Secondo dati resi noti nel gennaio 2007, più di 420 persone sono state giustiziate dal 1991, la maggior parte per reati di droga. Le uniche due esecuzioni registrate a Singapore nel 2007 sono state effettuate per traffico di droga.

La “guerra al terrorismo”

Nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008, sono state approvate leggi anti-terrorismo in Malesia, Bangladesh, Indonesia e Singapore. Numerose esecuzioni per fatti di terrorismo sono state effettuate in Iran e in Iraq. Tra i condannati a morte o giustiziati per “terrorismo” in Iran, potrebbero esserci in realtà anche oppositori politici, in particolare appartenenti alle minoranze etniche iraniane: Azeri, Kurdi, Baluci e Ahwazi. Delle 33 esecuzioni registrate nel 2007 in Iraq, 30 sono state effettuate nei confronti di persone condannate per atti collegati al terrorismo. Nell’aprile del 2008, altre 28 persone sono state giustiziate per fatti analoghi.
In Pakistan, almeno due persone sono state giustiziate per reati legati al terrorismo e numerose condanne a morte sono state ordinate da tribunali speciali contro il terrorismo. Nel maggio 2008, l’Egitto ha prorogato di due anni lo stato d’emergenza, sollevando le proteste delle associazioni a difesa dei diritti umani. Centinaia di condanne a morte sono state pronunciate anche se non eseguite in Algeria.

In nome della lotta al terrorismo e “legittimati” dalla partecipazione alla Grande Coalizione nata in seguito agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, paesi autoritari e illiberali come la Cina hanno continuato nella violazione dei diritti umani al proprio interno e, in alcuni casi, hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nella opposizione pacifica o in attività sgradite al regime.

In particolare, la Cina fa passare la repressione dei Tibetani e degli Uiguri come lotta contro il terrorismo. Nei primi sei mesi del 2008, la polizia ha arrestato nello Xinjiang o Turkestan Orientale 82 attivisti musulmani, accusati di preparare “attentati e atti di sabotaggio” contro le Olimpiadi di Pechino. Il 9 luglio 2008, due Uiguri sono stati giustiziati nello Xinjiang subito dopo l’annuncio pubblico delle loro condanne a morte. Erano stati accusati di essere membri del Movimento Islamico del Turkestan Orientale, che Pechino accusa di legami con il terrorismo. Il loro caso, ha dichiarato la presidente della Uyghur American Association, Rebiya Kadeer, “dimostra che il regime di Pechino è incline a strumentalizzare la minaccia dell’estremismo religioso e del terrorismo per colpire duramente il dissenso pacifico.”

Il 12 giugno 2008, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto il diritto costituzionale dei detenuti a Guantanamo di ricorrere nei tribunali ordinari contro la propria detenzione. La Corte ha anche detto che l’apparato giudiziario militare messo in piedi dopo l’11 settembre per classificare come “nemici combattenti”, detenere e processare presunti terroristi, è inadeguato. “Questi processi non rispettano assolutamente gli standard del giusto processo e il diritto internazionale relativo ai diritti umani,” ha dichiarato nel giugno scorso Philip Alston, special rapporteur ONU sulle esecuzioni extra-giudiziarie, sommarie e arbitrarie, evidenziando come l’accesso alla difesa sia limitato e che i tribunali militari ammettono prove per sentito dire, oltre che “dichiarazioni forzate” ottenute nel corso degli interrogatori. Almeno uno degli accusati – sostiene Alston – è stato sottoposto al “waterboarding”, una tecnica di annegamento simulato denunciata come tortura dai gruppi a difesa dei diritti umani.

La persecuzione di appartenenti a movimenti religiosi o spirituali

Nel 2007 e nei primi mesi del 2008, la repressione nei confronti di membri di minoranze religiose o movimenti spirituali non riconosciuti dalle autorità, è continuata in Cina, Corea del Nord, Iran e Vietnam.

In Cina, è continuata la repressione nei confronti di protestanti e cattolici, musulmani Uiguri e buddisti tibetani. Il Governo ha continuato anche la repressione di movimenti che considera “culti”, in particolare il Falun Gong. Dopo la più importante protesta anti-cinese degli ultimi 20 anni, iniziata il 10 marzo 2008 in occasione del 49° anniversario della rivolta del 1959 contro il dominio cinese, le autorità tibetane in esilio hanno compilato una lista del totale di morti, feriti e arrestati o detenuti tibetani nelle tre province tradizionali del Tibet, dal 10 marzo al 31 maggio 2008. Questi dati mostrano che 209 persone sono state uccise, 1.000 ferite, più di 5.972 detenute, e circa 40 condannate a pene varianti da un anno all’ergastolo.

Gruppi religiosi e per la difesa dei diritti umani fuori dalla Corea del Nord hanno continuato a fornire informazioni relative alla persecuzione di protestanti, cattolici, buddisti e membri di Chiese cristiane clandestine. Fedeli cristiani sarebbero stati imprigionati, picchiati, torturati o uccisi per aver letto la Bibbia e predicato Dio, in particolare per aver avuto legami con gruppi evangelici operanti oltre confine in Cina.

In Vietnam, particolarmente dura è continuata a essere la repressione nei confronti dei Montagnard, la minoranza etnica di religione cristiana che abita gli altipiani centrali, accusata di credere in una “religione americanista”. Secondo i dati della Fondazione Montagnard, che opera da anni per la libertà religiosa della “popolazione degli altopiani” e ne segue costantemente la situazione, sono “centinaia” i cristiani montagnard di etnia degar che si trovano tuttora in prigione, i quali possono scegliere se rinnegare la fede o emigrare in Cambogia.

Pena di morte per reati politici e di opinione

Nel 2007 e nei primi mesi del 2008, condanne a morte o esecuzioni per motivi essenzialmente politici si sono verificate in Iran. La magistratura ha continuato a trattare come ‘mohareb’, cioè nemici di Allah, gli arrestati durante le proteste anti-regime che si sono svolte nella capitale e in altre città iraniane. L’accusa di essere un ‘mohareb’ comporta un processo rapido e severo che si risolve spesso con la pena di morte.

La provincia del Khuzestan, dove l’etnia araba di religione sunnita rappresenta la maggioranza, è stata teatro di una dura repressione dopo gli attentati dinamitardi che si sono verificati nella città di Ahwaz nel 2005. Al di là della propaganda di Teheran, la maggior parte dei movimenti ahwazi non sono separatisti violenti. Essi vogliono innanzitutto non discriminazione, diritti culturali, giustizia sociale e autogoverno regionale, non l’indipendenza. Numerosi prigionieri politici arabi Ahwazi sono stati giustiziati.

Anche la provincia iraniana del Sistan Baluchistan è stata teatro di una dura repressione nei confronti della dissidenza baluci di religione sunnita che ha portato a un aumento delle esecuzioni nel corso dell’anno.

Anche nel Kurdistan iraniano, condanne a morte ed esecuzioni si sono susseguite nei confronti di oppositori politici accusati di “azioni contro la sicurezza nazionale” e di “contatti con organizzazioni sovversive.” Nel luglio del 2007, il regime dei Mullah ha condannato a morte due giornalisti kurdi, Adnan Hassanpur e Abdolvahed Hiwa Butimar, per attività contrarie alla sicurezza nazionale. La sorella di Hassanpur ha respinto queste accuse: “Penso che la sua unica colpa sia ciò che ha scritto.”

Pena di morte per reati non violenti

Secondo il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, “nei Paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi.”

Ciò nonostante, nel 2007 e nei primi mesi del 2008, la pena di morte per reati non violenti, la maggior parte dei quali di natura economica, è stata inflitta o eseguita in Cina, Corea del Nord, Iran e Vietnam. Nell’aprile 2007, l’Uganda ha approvato una legge che prevede la pena di morte per chi, intenzionalmente, trasmette il virus dell’Aids.

In Cina, la Corte Suprema del Popolo ha emanato una serie di direttive volte a contrastare, anche con la pena di morte, il fenomeno dei furti di gas, petrolio, fili di rame e gli atti di vandalismo con conseguenze gravi alle persone, alle attrezzature di comunicazione e alle reti di distribuzione dell’energia.

In Corea del Nord, il responsabile di una cooperativa agricola e due suoi colleghi sono stati fucilati nel dicembre 2007 per “aver avviato un’impresa privata.” Nel febbraio 2008, 22 persone sarebbero state fucilate per aver tentato di fuggire in Corea del Sud. In Iran, nel giugno 2007, il parlamento ha approvato una legge che prevede la condanna a morte per le persone coinvolte nella produzione di film pornografici. Nel maggio 2008, un tribunale del Vietnam ha condannato a morte per furto la commessa di un ufficio postale.

La pena di morte “top secret”

Molti paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sulla sua applicazione, e la mancanza di informazione al riguardo contribuisce all’aumento del numero di esecuzioni.

In alcuni casi, come la Cina e il Vietnam, dove la questione è coperta dal segreto di Stato, le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali o da fonti indipendenti descrivono solo una parte del fenomeno.

In Bielorussia e Mongolia, dove vige il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati o organizzazioni internazionali molto tempo dopo la loro esecuzione.
In quasi tutti gli altri paesi autoritari, dall’Iran, allo Yemen, al Sudan, dove pure non esiste segreto di Stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie uscite su media statali o da fonti ufficiose o indipendenti, che evidentemente non riportano tutti i fatti.

Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste e le notizie non filtrano nemmeno sui giornali locali. È il caso della Corea del Nord.
Vi sono, infine, paesi come Arabia Saudita, Botswana e Giappone, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate, mentre familiari, avvocati e gli stessi condannati a morte sono tenuti all’oscuro di tutto.

La “civiltà” dell’iniezione letale

I paesi che hanno deciso recentemente di passare dalla sedia elettrica, l’impiccagione o la fucilazione alla iniezione letale come metodo di esecuzione, hanno presentato questa “riforma” come una conquista di civiltà e un modo più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte. La realtà è diversa.

Negli Stati Uniti, nel corso del 2007, sono stati presentati ricorsi contro l’iniezione letale e più volte sono stati accolti, determinando consistenti rinvii delle esecuzioni, in Alabama, Arkansas, California, Delaware, Mississippi, Missouri, Nevada, North Carolina, Ohio, Oklahoma, Tennessee e Texas.

L’argomentazione comune ai ricorsi nei vari stati è che il secondo farmaco utilizzato nell’iniezione, quello che paralizza i muscoli, in realtà impedirebbe ai condannati soltanto di manifestare il dolore per il terzo farmaco, quello che blocca il cuore, ma non di provarlo. Un dolore, peraltro, che sarebbe particolarmente forte, e non di brevissima durata. Diverse perizie affidate a esperti di anestesiologia hanno evidenziato la possibilità che il primo farmaco a venir iniettato, il barbiturico con funzione anestetica, potrebbe non essere sufficiente a rendere incosciente il condannato per le fasi successive dell’esecuzione.

Dopo molti anni di discussioni e di ricorsi, i dubbi sul metodo dell’iniezione letale hanno finalmente investito della questione la Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale però, il 16 aprile 2008, respingendo il ricorso presentato da due detenuti nel braccio della morte in Kentucky, ha stabilito che il cocktail di sostanze letali usato nella gran parte degli Stati Usa non rappresenta una punizione “crudele e inusuale” e quindi non è contrario all’Ottavo Emendamento della Costituzione americana.

Nel 1997, la Cina ha introdotto il metodo dell’iniezione letale che è stata applicata per la prima volta nello Yunnan. Di recente, in molte Province sono state allestite anche delle unità mobili su dei furgoni da 24 posti, opportunamente modificati, che raggiungono il luogo dove si è svolto il processo. Il detenuto è assicurato con delle cinghie a un lettino di metallo posto sul retro del furgone. Una volta inserito l’ago, un poliziotto preme un bottone e automaticamente la sostanza letale viene iniettata nella vena. L’esecuzione può essere seguita su un monitor accanto al posto di guida ed eventualmente registrata.

Nel gennaio del 2008, la Corte Suprema del Popolo ha detto che la Cina prevede di incrementare l’uso dell’iniezione letale per l’esecuzione dei condannati a morte, considerandola un sistema più umano del colpo di pistola alla nuca. Per raggiungere l’obiettivo, la Corte Suprema trasferirà quantitativi del veleno normalmente usato per le iniezioni letali direttamente alle corti locali. Attualmente, funzionari dei tribunali devono recarsi a Pechino per approvvigionarsi.

Dopo dieci anni di sperimentazione, dal 1° marzo 2008, la città di Chengdu, capoluogo della provincia del Sichuan, ha adottato formalmente il metodo dell’iniezione letale al posto del colpo di arma da fuoco alla nuca. Per motivi di ordine psicologico, non si sa bene se del boia o del detenuto, un pannello dotato di foro è posizionato tra il condannato a morte e i funzionari di polizia, in modo tale da non potersi vedere nel corso dell’esecuzione. Il prigioniero infilerà il braccio nel foro e gli addetti inietteranno le sostanze letali, che prima lo addormenteranno, poi procureranno l’arresto cardiaco.


Pechino, 19 giugno 2008 – Tibet: liberati 1157 manifestanti, 12 condanne
ANSA



I tribunali tibetani hanno condannato 12 persone coinvolte nei disordini avvenuti nella capitale Lhasa in marzo. Lo ha annunciato l’agenzia cinese Nuova Cina citando il vice presidente del Tibet Palma Trily, e sottolineando che le condanne – la cui entità non è stata precisata – sono state comminate alla vigilia del passaggio della torcia olimpica in Tibet. La Cina ha invece liberato 1157 persone accusate di essere coinvolte nei disordini.

LA FIACCOLA PASSERA’ IN UN TIBET BLINDATO
La fiaccola olimpica passerà domani da Lhasa, la capitale del Tibet ancora chiusa a tutti gli osservatori indipendenti dopo le manifestazioni anticinesi dei mesi scorsi. Residenti della città riferiscono che i movimenti della popolazione tibetana sono ancora soggetti a stretti controlli e che, in occasione del passaggio della fiaccola, alla maggior parte degli abitanti non sarà consentito uscire dalle proprie case. La presenza per le strade di agenti della Polizia Armata del Popolo, un corpo paramilitare addetto tra l’altro alla repressione delle proteste popolari, è aumentata negli ultimi due giorni, aggiungono le fonti.

Non è chiaro quale sia la situazione nei grandi monasteri di Lhasa, come quelli del Jokang e di Ramoche e quelli che sorgono nei pressi della città come Sera, Drepung e Ganden, dai quali il 10 marzo scorso sono partite le proteste che poi si sono estese a tutto il Tibet, protraendosi almeno fino alla fine di maggio.

A Lhasa ed in altre zone del Tibet i monasteri sono controllati da centinaia di poliziotti e soldati che impongono ai monaci le cosidette “sedute di rieducazione” nelle quali devono rinnegare il loro leader spirituale, il Dalai Lama, che dal 1959 vive in esilio in India.

Ieri l’organizzazione umanitaria Amnesty International ha ricordato che sono non meno di mille le persone che sono state arrestate in questi mesi e delle quali non si hanno notizie precise. “La chiusura totale del Tibet fa sì che le violazioni dei diritti umani, come gli arresti arbitrari e i maltrattamenti proseguano in silenzio e nella più completa impunità”, ha affermato Amnesty International.

Il programma diffuso oggi dai mezzi d’informazione cinesi prevede che la staffetta parta dai giardini del Norbulingka, la ex-residenza estiva dei Dalai Lama – i leader spirituali e temporali del Tibet prima della conquista cinese – e termini sulla piazza davanti al palazzo del Potala, che domina la città.

Artisti balleranno e canteranno, afferma il quotidiano China Daily sulla piazza. I tedofori saranno 156 e davanti al Potala avverrà il “ricongiungimento” delle due parti della fiaccola, che sono state separate in aprile per consentire ad un gruppo di alpinisti di portarla sulla cima più alta del mondo, quella dell’ Everest, a oltre ottomila metri d’ altezza.


India, 19 giugno 2008 – “Oro Blu”: le guerre dell’acqua


Pechino, 15 giugno 2008 – alluvione nel sud e nell’est della Cina, 62 tra morti e dispersi
La Repubblica

Dopo il terremoto, è la pioggia a creare allarme nel sud e nell’est della Cina. Il bilancio delle alluvioni è di 55 morti e sette dispersi.

Le piogge torrenziali, che hanno colpito soprattutto le province del Guangdong, dello Guangxi e dello Jiangxi, continueranno nei prossimi giorni.

Finora oltre un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie abitazioni mentre le perdite economiche ammontano a quasi due miliardi di dollari. Le case danneggiate sono 141.000. P

reoccupante è la situazione nel Guangdong, dove il livelli dei fiumi hanno spinto a proclamare l’allerta per un possibile straripamento. Nela città di Changle oltre 100.000 persone sono state costrette ad abbandonare le case e a imbarcarsi sui battelli di soccorso. Nel Guangxi si teme per eventuali frane in un’area in cui hanno già perso la vita 14 persone.


Kurihara (Giappone), 15 giugno, 2008 – 9 morti per il sisma, paura per la diga Kurihara
La Repubblica

Il bilancio delle vittime del sisma che ha colpito il nord del Giappone è salito alla cifra di nove morti, 250 feriti e una decina di dispersi ma il peggio potrebbe ancora arrivare.

Le operazioni di soccorso sono state sospese vicino la città di Kurihara, quando una certa quantità di acqua è venita fuori con forza dalla montagna franata. Si teme che stia per franare la diga che ripara Kurihara.

I soccorritori impegnati a tirar fuori dalle macerie un sopravvissuto sono stati costretti ad abbandonare la zona perchè il flusso di acqua si era fatto più intenso. Le trenta abitazioni vicino alla diga sono state evacuate.


Tanto per ribadire …

Sichuan, 09 giugno 2008 – tornano i vizi del regime
La Repubblica.it, by Federico Rampini

La trasparenza nell’informazione sul terremoto del Sichuan non è più gradita. La polizia cinese ha iniziato a cacciare i giornalisti stranieri dalle zone del sisma. E la stampa nazionale subisce le intimidazioni della censura di Stato: basta con le cronache sulle proteste dei genitori, dopo la strage di bambini nelle scuole abusive.

E’ toccato a due inviati dell’Agence France Presse sperimentare il cambio di atmosfera. Stavano cercando di entrare nella cittadina di Wufu, nell’epicentro del sisma del 12 maggio. Da Wufu era giunta notizia di una rivolta di genitori. Anche lì una scuola è crollata di schianto uccidendo gli alunni che erano in classe. Altri edifici governativi hanno retto alla scossa di 8 gradi della scala Richter: evidentemente più solidi e costruiti rispettando le normative antisismiche. La scuola di Wufu era una palazzina recente, di appena dieci anni fa. Il terribile sospetto è che i costruttori abbiano risparmiato sui materiali, comprando il silenzio delle autorità di governo. E’ un copione che si ripete in tutta l’area del sisma dove migliaia di bambini sono rimasti sotto le macerie delle scuole.

Spesso dai muri squarciati si intravvedono le prove della fragilità: cemento così friabile che sembra gesso, fil di ferro al posto dei tondini d’acciaio. Tra la gente del Sichuan sale la rabbia, c’è la convinzione che tra le 70.000 vittime del terremoto (più 18.000 dispersi) molti si sarebbero salvati in edifici più solidi. Da settimane i funerali di massa dei bambini sono diventati cortei di protesta dei genitori contro la corruzione.

Il regime che all’inizio aveva superato la prova della calamità naturale grazie a una eccezionale mobilitazione dei soccorsi, ora si sente sotto processo. E reagisce con i metodi di sempre: repressione poliziesca, censura. Addio ai reportage spregiudicati che il pubblico cinese aveva potuto leggere sui giornali o vedere alla tv di Stato. La libertà d’informazione dei primi giorni è revocata. Da diversi giorni le redazioni dei mass media cinesi ricevono direttive sempre più restrittive per “orientare” i loro messaggi. Ora anche la stampa estera è nel mirino. Le autorità locali e la polizia sono stufi di veder girare reporter occidentali nelle zone dove le famiglie urlano la loro disperazione contro i gerarchi comunisti.

Anche a Juyuan e Hanwang – dove il corrispondente di Repubblica era arrivato insieme ai primi soccorsi quattro settimane fa – ieri la polizia ha cominciato a fermare ed espellere gli stranieri. Il pugno duro del regime non risparmia le famiglie.

E’ finito il rispetto per il lutto, si dilegua quell’atmosfera da “civiltà confuciana” che aveva circondato le prime manifestazioni. Adesso la polizia arresta i genitori delle vittime, blocca l’accesso alle macerie delle scuole, vieta “raduni illegali” anche quando sono funerali collettivi. Alla stampa cinese è proibito anche evocare un altro tema tabù: le ruberie che rischiano di dilapidare le generose donazioni per i terremotati (le grandi organizzazioni umanitarie, tipo Croce Rossa, sono tutte sotto il controllo del governo e in passato i gerarchi comunisti vi hanno attinto a piene mani). Svanisce la speranza che questa tragedia nazionale potesse segnare l’inizio di una svolta, come fu Cernobyl per la glasnost sovietica nel 1986.

Si confermano le ricostruzioni pubblicate da Repubblica nei primi giorni dopo il sisma. Già allora i giornalisti cinesi rivelarono che l’improvvisa libertà era una loro conquista, non una concessione del governo: Pechino tentò fin dalla sera del 12 maggio di impedire l’arrivo dei reporter nel Sichuan, ma nel caos del sisma alcuni giornalisti coraggiosi ignorarono i diktat e misero la censura di fronte al fatto compiuto. Oggi il regime ha recuperato il controllo della situazione.

I segnali di un nuovo giro di vite si moltiplicano anche in Tibet. Si segnala un improvviso aumento della presenza di reparti di polizia militare nelle vie della capitale, Lhasa. Le spiegazioni sembrano essere tre: l’avvicinarsi di una festività religiosa buddista che porterà un afflusso di pellegrini; voci diffuse dalla polizia su “preparativi” di proteste pilotati dal Dalai Lama; infine l’avvicinarsi dell’arrivo della fiaccola olimpica previsto per il 17 e 18 giugno. Sedici monaci buddisti tibetani sono stati condannati per aver preparato “attentati terroristici con l’esplosivo”. In passato Pechino non aveva mai tentato di attribuire attentati di questo genere ai monaci. L’accusa può preludere a nuovi arresti e deportazioni di massa dopo le retate che hanno seguito la rivolta di marzo. A riprova che il regime non vuole intralci alla repressione, è stata sospesa la licenza professionale a due noti avvocati di Pechino che si erano offerti di difendere gratis i tibetani arrestati a marzo.


Tangjashan (Sichuan), 07 giugno 2008 – Il lago della paura
La Repubblica.it


Continuano le operazioni di drenaggio del lago sismico formatosi a Tangjashan dopo il terremoto. Evacuate oltre 250.000 persone


Guarda qui il video su Repubblica Radio TV


06 giugno 2008 – Anche nel Sichuan la tolleranza è finita
La Repubblica, by Federico Rampini

Un raggio di speranza si era acceso dopo il terremoto del Sichuan. I mass media cinesi si sono conquistati spazi di libertà nuovi, hanno raccontato le sofferenze dei terremotati senza censurare la rabbia e le proteste.

Hanno rivelato lo scandalo delle scuole schiantate dal sisma perché costruite in violazione delle norme antisismiche. La trasparenza ha creato l’aspettativa di un allentamento della censura.

Purtroppo negli ultimi giorni il clima sta già cambiando in peggio. Ieri per la prima volta è stato vietato l’accesso delle famiglie alle rovine delle scuole dove sono sepolti i loro figli. Nei giorni scorsi i funerali

Ora il regime ha detto basta. Negli ultimi funerali è entrata in azione la polizia.

Il portavoce del governo centrale, Lu Guangjin, ha annunciato che “il governo sta esaminando il problema della sicurezza degli edifici scolastici”. La rabbia popolare è stata tollerata fin troppo, ora lo scandalo viene “avocato” ai vertici del sistema. Il silenzio può calare anche su quello. E le redazioni dei giornali hanno ricevuto l’ordine di non dare più visibilità alle proteste nel Sichuan.


Pechino, 31 maggio 2008 – Per 15 milioni di sfollati c’è anche il rischio di inquinamento nucleare
Asianews

Le autorità stanno spostando “con urgenza” 99 fonti radioattive esistenti a valle del lago Tangjiashan, che rischia di far crollare gli argini e allagare tutta la valle sottostante, secondo quanto dichiara Ma Ning, capo regionale dell’Ufficio per la protezione ambientale.

Per fare in fretta, il materiale è rimosso tramite gru, posto dentro veicoli sigillati e portato ad almeno 300 chilometri dalla zona a rischio di Mianyang. Si ritiene che, accanto a materiale usato per macchine radiologiche o per testare i difetti in opere edili e ponti, ci siano impianti nucleari non in funzione per generare l’elettricità e persino un impianto per creare armi nucleari, che potrebbe contenere elementi molto instabili come tritio, plutonio e uranio e un reattore nucleare, secondo quanto riferisce l’Istituto francese per la protezione radiologica e la sicurezza nucleare.

Il lago è stato creato dal movimento tellurico che ha sbarrato il corso di un fiume. Le acque salgono e potrebbero far crollare la diga e inondare la zona a valle, dove vivono 1,3 milioni di persone. Già 197mila sono state evacuate con ogni mezzo. Da giorni l’esercito scava un canale per far defluire le acque, sufficienti per riempire 50mila piscine olimpiche, ma si prevede di finirlo non prima del 5 giugno. Il sisma ha creato altri 33 laghi, 28 dei quali rischiano di crollare tra qualche giorno causando inondazioni.

E’ la prima volta che Pechino ammette il rischio nucleare per il terremoto. La settimana scorsa Zhou Shengxian, ministro per la Protezione ambientale, ha detto che le 32 “fonti radioattive” sepolte dal terremoto erano già state tutte recuperate tranne due.

I 15 milioni di sfollati per il terremoto affrontano anche altri rischi inaspettati. Da un impianto chimico di Leigu, vicino all’epicentro, è fuoriuscito gas che ha avvelenato 4 persone e costretto oltre 800 a fuggire altrove. Nella zona terremotata ci sono 14.357 ditte, tra cui 2.900 chimiche, e Zhou assicura che “migliaia” di persone stanno monitorando ogni possibile rischio.


Cina, 25 maggio 2008 – bilancio ufficiale, 62664 morti. Si contano oltre 23mila dispersi e 358.816 feriti
ANSA Fastweb

E’ di 62.664 il bilancio ufficiale delle vittime del sisma che ha colpito la Cina il 12 maggio scorso.

Al momento ci sono 23.775 dispersi. Lo ha annunciato il portavoce del Consiglio di Stato a Pechino. I feriti sono 358.816, ha riferito ancora il portavoce, Guo Weimin.

E mentre gia’ il precedente bilancio ufficiale, comunicato ieri, parlava di 60.560 morti e 26.221 dispersi, il primo ministro cinese Wen Jibao aveva fatto riferimento ad un possibile bilancio finale di oltre 80 mila vittime.


Pechino, 25 maggio 20068 – Cina, salvato un uomo a 266 ore da sisma
ANSA

Un uomo 80enne e’ stato estratto ancora vivo dai soccorritori dopo aver trascorso 266 ore sotto le macerie provocate dal sisma in Cina. Xiao Zhihu, parzialmente paralizzato, – riferisce la tv di stato cinese – e’ stato salvato il 23 nella citta’ di Mianzhu. Era rimasto intrappolato sotto ad un pilastro della sua casa.

Il bilancio ufficiale del terremoto che ha colpito la regione del Sichuan il 12/5 e’ di oltre 60.000 morti, anche se per il premier potrebbe superare gli 80.000.


Pechino, 24 Maggio 2008 – Un nuovo asse Mosca-Pechino
La Repubblica, by Federico Rampini

Come ai bei tempi in cui Mao e Stalin filavano d’amore e d’accordo, Russia e Cina fanno fronte comune contro l’America. In questo caso ad avvicinare le due superpotenze è la loro opposizione al sistema globale di difesa anti-missili, che gli Stati Uniti stanno “infiltrando” in aree dell’Asia centrale di importanza strategica per Mosca e Pechino.

Ma la convergenza è anche più ampia, abbraccia l’Iran, i diritti umani, le politiche antisecessioniste in Tibet o in Cecenia: un rigetto sempre più esplicito di tutto ciò che chiede l’Occidente.

Ieri il monito agli Stati Uniti è stato lanciato in occasione della visita del presidente Dmitry Medvedev a Pechino. Dal vertice col suo omologo Hu Jintao è uscita una dichiarazione congiunta: “La creazione di un sistema globale di difesa anti-missilistica e il suo dispiegamento in alcune aree del mondo non agevola il mantenimento degli equilibri strategici e della stabilità, danneggia gli sforzi per la riduzione degli armamenti e la non-proliferazione nucleare”.

A questo si è aggiunta un’altrettanto forte messa in guardia contro ogni tentazione di intervento militare in Iran, un’ipotesi che continua ad essere attribuita a George Bush negli ultimi mesi della sua presidenza (e che potrebbe anche riaffacciarsi sotto un’eventuale presidenza di John McCain).

L’abbraccio sino-russo è arrivato in occasione di un summit importante anche sotto il profilo simbolico. Medvedev infatti ha scelto la Cina come tappa principale del suo primo viaggio all’estero, un segnale chiaro sulle priorità strategiche di Mosca. In un clima molto diverso per la politica internazionale – quando l’America godeva di una supremazia “unipolare” incontestata – Vladimir Putin scelse Londra per il suo primo viaggio all’estero nel 2000.

Adesso la Russia irrobustita da una rendita petrolifera sempre più generosa non ha bisogno di omaggiare l’Occidente. In quanto alla Repubblica Popolare, alla sua ascesa come seconda economia mondiale si accompagna un’espansione d’influenza politico-militare in tutti i continenti.

Ora che Cina e Russia hanno risolto gli ultimi contenziosi (con l’accordo firmato da Putin sui confini), in un certo senso è stato sepolto ogni residuo del lungo “scisma” che oppose le due chiese del comunismo mondiale: il gelo iniziato tra Mao Zedong e Nikita Kruscev spinse via via la Repubblica Popolare a costruirsi l’atomica da sola, poi provocò scontri fra le truppe dei due paesi sul fiume Ussuri, infine pose le basi per il riavvicinamento cinese con l’America di Richard Nixon.

Oggi semmai tra Cina e Russia può nascere l’embrione di un nuovo asse, meno ideologico e più pragmatico di una volta.

E’ l’alleanza dei due principali modelli di “capitalismo autoritario” del XXI secolo, per fare sbarramento contro le critiche dell’Occidente sulla mancanza di democrazia e gli abusi contro i diritti umani.

E’ anche la sinergia fra due economie entrambe in crescita, con caratteristiche diverse e complementari: la Russia è ricca di quelle materie prime (energetiche e non) che la Cina deve importare per sostenere il formidabile ritmo di crescita della propria industria manifatturiera, nonché il boom di consumi interni della popolazione più vasta del pianeta.

La visita iniziata ieri è il culmine di un processo di avvicinamento ben avviato da Putin: le due nazioni hanno già organizzato diverse manovre militari congiunte. Ieri è stato firmato un accordo di cooperazione nucleare, per un miliardo di dollari la Russia costruirà in Cina due impianti di arricchimento dell’uranio.

L’interscambio commerciale resta il terreno su cui si registrano più ritardi. Con 48 miliardi di commercio bilaterale la Russia rappresenta solo il 2% dell’import-export cinese, mentre gli Stati Uniti pesano otto volte di più.


Pechino, 24 maggio 2008 – Sisma in Cina, sale a 80 mila il bilancio delle vittime
L’Unità



Continua a salire il bilancio delle vittime provocate dal sisma che il 12 maggio scorso si è abbattuto sulla Cina. L’ultimo conteggio annuncia che il numero dei morti potrebbe arrivare a 80 mila.

A confermarlo è lo stesso primo ministro cinese Wen Jiabao che sabato, insieme al segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, si è recato nella città di Yingxiu, situata a pochi chilometri dall’epicentro del sisma e quasi completamente distrutta dalla tragedia.

«L’Onu ed i popoli di tutto il mondo – ha detto Ban Ki moon – saranno a fianco dei cinesi con cui lavoreranno per superare l’emergenza». Il segretario Onu ha elogiato la Cina per la «straordinaria capacità di leadership» dimostrata nella gestione dell’emergenza post terremoto.


Pechino, 21 Maggio 2008 – Sichuan, 5 milioni di senzatetto
La Repubblica, by Federico Rampini

Per il momento forse ci sono ancora vite da salvare (si spera) sotto le macerie, se continuano a ripetersi i miracoli delle ultime ore.

Bisogna trasportare nel Sichuan una quantità infinita di tende per gli alloggi temporanei (anche l’Italia fa la sua parte, con due voli della nostra protezione civile fatti giungere a Chengdu dalla Farnesina).

C’è l’urgenza di prevenire epidemie: quando i terremotati non sono nel fango delle pioggie comincia un caldo pre-estivo già umido e afoso, che coi tanti cadaveri non sepolti può facilitare contagi.

Ci sono laghi e fiumi che tracimano, scosse di assestamento che possono ancora uccidere vista l’enorme quantità di edifici pericolanti.

Ma se si spinge lo sguardo un po’ oltre l’emergenza, la grande sfida sarà la ricostruzione, “quale” ricostruzione. Il primo problema è la dimensione stessa del bisogno: 5 milioni di terremotati sono tanti anche per la Cina, se concentrati in un territorio relativamente ristretto. Ed è un territorio in parte montagnoso, povero, quindi con scarse risorse proprie da investire nel rilancio.

Questo non è il Friuli, per intenderci. Gli aiuti devono venire tutti da fuori. Si dovranno operare scelte difficili. Ricostruire esattamente nelle stesse località che sono state rase al suolo? In queste ore è un’ipotesi che sembra assurda. Sia per il rischio sismico che incombe su quella zona; sia perché l’entità della distruzione è tale che un’operazione di sgombero delle macerie non può essere rapida, può far perdere tempo prezioso alla ricostruzione.

D’altra parte la storia mondiale (…da Pompei a Messina all’Irpinia…a San Francisco) insegna che l’attaccamento alle radici è fortissimo, si tende a ricostruire nelle stesse zone che hanno subito calamità terrificanti.

Nell’epicentro del Sichuan subentrano anche dei problemi di identità culturale: ci sono diverse minoranze etniche, tibetani inclusi, che vedono con timore la prospettiva di uno sradicamento.

Poi naturalmente bisognerà vigilare a che la ricostruzione avvenga rispettando le norme antisismiche, un’altra sfida seria vista la corruzione diffusa che ha consentito abusi in passato. In ogni caso, se nella fase dell’emergenza il governo cinese ha fornito una risposta positiva, le prove del futuro potrebbero essere ancora più impegnative.


Lunedì, 19 Maggio 2008 – La Cina si è fermata
La Repubblica, by Federico Rampini (blog)

Dai tempi della morte di Mao Zedong nel 1976 non si ricordava in Cina un cordoglio così compatto.

In una scena impressionante di unione nazionale allo scattare delle 14.28 – una settimana dopo la scossa di terremoto nel Sichuan – l’intera Repubblica Popolare si è letteralmente fermata.

I grandi viali automobilistici di Pechino e Shanghai si sono paralizzati all’istante, nell’immobilità assoluta, mentre suonavano le sirene antiaeree. Nelle strade, nei supermercati, nelle scuole e nei luoghi di lavoro il paese si è trasformato in un fotogramma quasi irreale. Nello stesso momento scattavano sull’attenti migliaia di soldati e soccorritori impegnati nell’epicentro del sisma.

Per tre minuti un miliardo di persone hanno osservato il silenzio del lutto, spesso con i volti solcati di lacrime. Una scenografia commovente e tristissima ha coronato una settimana tragica.

La Cina sembra aver ritrovato un’armonia che non si percepiva da decenni con tanta sincerità. Per le nuove generazioni è stato una sorta di battesimo, la prima esperienza di solidarietà reale con i più deboli.


Cina, 17 maggio 2008 – straripa anche un lago. Migliaia in fuga
L’Unità

Ancora emergenza in Cina dove continuano ad aumentare i danni provocati dal terremoto di lunedì scorso. Venerdì notte una nuova scossa di assestamento si è abbattuta nel distretto di Lixian, a meno di 50 chilometri dall’epicentro del sisma. E sabato è altissima la tensione dopo che si sono pericolosamente alzate le acque di un lago: dopo l’inondazione, la città di Beichuan è stata evacuata e migliaia di persone sono in fuga verso le alture vicine.

Per il presidente cinese Hu Jintao i soccorsi sono «una corsa contro il tempo». Ed è notizia di sabato il salvataggio di due superstiti trovati sotto le macerie: si tratta di due turisti, un tedesco ed un francese. Il primo è stato estratto dai resti di un palazzo cinque gironi dopo il crollo, il secondo invece è stato ritrovato in un campo di sfollati. Ma al di là di queste due buone notizie, il quadro in Cina è drammatico: secondo le autorità di Pechino, il bilancio delle vittime potrebbe superare i 50.000 morti.


Pechino, 17 maggio 2008 – Terremoto in Cina, lago straripa, migliaia in fuga da Beichuan
Le Repubblica

Il lago formatosi vicino a Beichuan, nella zona della Cina occidentale colpita nei giorni scorsi dal terremoto che stando all’ultimo bilancio ufficiale ha provocato quasi 29 mila vittime, è straripato e migliaia di persone sono in fuga. Lo riferisce un fotografo della Reuters, secondo il quale un annuncio pubblico ha consigliato alla gente di fuggire verso le alture vicine.

Le autorità cinesi avevano in particolare segnalato che le acque del bacino apparivano sul punto di rompere da un momento all’altro gli argini, lesionati dalle onde telluriche, dopo essere salite rapidamente di livello. Una frana provocata dal terremoto aveva bloccato infatti il fiume Bai He provocando la formazione di un lago a monte dell’abitato.

Poi la situazione è precipitata e gli stessi soldati hanno cominciato ad abbandonare la città e, nel comunicare tra loro con la radio, l’ordine che si trasmettevano era perentorio: “Ritirata generale!”. La situazione è resa ulteriormente drammatica dal fatto che nella cittadina vi sono almeno 46 civili che necessitano di un’immediata evacuazione, avendo riportato gravi lesioni a causa del cataclisma. Un’emittente televisiva via cavo di Hong Kong ha nel frattempo reso noto che a Qingchuan, una novantina di chilometri più a nord-est, si sta provvedendo a far allontanare l’intera popolazione, complessivamente oltre un milione di persone.

In una situazione tanto drammatica, va segnalata anche una notizia di segno opposto. A cinque giorni dal terremoto che lunedì scorso ha seminato morte e distruzione nella provincia cinese dello Sichuan, un turista tedesco è stato miracolosamente estratto vivo dalle macerie di una palazzina crollata a Taoguan. L’uomo era rimasto intrappolato per ben 114 ore: a trovarlo, secondo l’agenzia di stampa ‘Xinhua’, sono stati i genieri dell’Esercito impegnati nelle operazioni di soccorso. Il turista è stato trasportato in un centro medico e per il momento si ignorano le sue condizioni di salute.

Salvo anche un francese, un insegnante di 38 anni che risiede nella medesima area e la cui odissea è stata meno penosa: è stato individuato in un campo per sfollati e sarà trasferito quanto prima a Chengdu, capoluogo provinciale. A Chengdu sono nel frattempo già stati condotti con un elicottero militare cinque studenti sud-coreani, soccorsi anch’essi nella contea di Wechuan.



Cina, 16 maggio 2008 – 50mila vittime del sisma. Oltre settemila scuole crollate
L’Unità

A 96 ore dal terribile terremoto che ha colpito la Cina un’infermiera è stata tratta in salvo da sotto le macerie di una clinica a Beichuan, nel nord della provincia del Sichuan. Anche altre due persone sarebbero state estratte vive dalle macerie nella stessa città dove finora i morti accertati sono 19.509 e in tutto il paese superano ormai le 50mila unità. Si tratta del peggior terremoto nella regione dal 1949.

Le piogge torrenziali che cadono nella regione minacciano la tenuta delle dighe, che sono già state messe a dura prova dal sisma. Il ministero per le Risorse naturali ha ordinato alle autorità locali del sud-ovest della Cina di mettere a punto piani per lo sgombero degli abitanti nella provincia del Sichuan e nelle contee del Wenchuan e del Beichuan. «A fronte della disastrosa situazione in quelle aree», ha detto un funzionario del ministero al China Business News, «le minacce incombenti sono gravi». Dopo il sisma il governo ha elencato 400 «situazioni pericolose» nei bacini idrici della regione e l’ente nazionale per la pianificazione economica ha stanziato 5,3 milioni di euro di fondi di emergenza per quantificare e riparare i danni alle dighe.

Il governo cinese sta mettendo a punto anche un piano d’adozione per gli orfani del terremoto. Non appena sarà «ristabilito l’ordine nelle regioni più colpite» dalla tragedia, saranno autorizzate le adozioni, secondo quanto previsto dalle leggi cinesi, ha fatto sapere il ministero degli Affari Civili. Diverse organizzazioni cinesi e internazionali, ma anche singoli cittadini hanno dimostrato preoccupazione per le sorti dei piccoli terremotati rimasti senza genitori e in molti hanno manifestato la volontà di adottarli. Ma finché le autorità non avrà ristabilito l’ordine nelle regioni devastate, gli orfani rimarranno sotto la responsabilità dei governi locali.

Da parte sua, il ministero dell’Edilizia ha ordinato alle autorità locali di aprire indagini sul crollo di così tante scuole. I numeri riportati da un portavoce del ministero, Han Jin, sono terribili e rappresentano solo una prima stima: delle circa 216mila strutture crollate nel Sichuan, ben 6.898 erano scuole. Più di 2mila studenti sono rimasti sepolti sotto le macerie di quattro scuole rase al suolo. Almeno mille fra insegnanti e studenti sono rimasti sepolti nella scuola media di Beichuan, dopo che la struttura di sette piani si è sbriciolata in una montagna di detriti alta due metri. Altri 900 ragazzi sono rimasti sepolti nella scuola media della vicina città di Juyan, oltre a 200 di due scuole ad Hanwang. Nella contea di Liangping è stata confermata la morte di cinque alunni delle elementari, mentre altri 100 sono rimasti feriti nel crollo di due scuole. Nelle povere zone rurali sconvolte dal terremoto, molte persone accusano i dirigenti locali di corruzione ed irregolarità nella costruzione delle scuole.

Anche il bilancio dei danni materiali provocato dal sisma che ha devastato la provincia di Sichuan è provvisorio. Ma il costo economico, per quanto secondario rispetto a quello delle vite umane, è enorme: 20 miliardi di dollari (equivalenti a 13 miliardi di euro) secondo le stime di Air Worldwide, società considerata un punto di riferimento in materia. Misure temporanee d’emergenza sono state imposte anche sui prezzi dei beni di consumo di prima necessità nella Provincia: stop agli aumenti, con ordinanza di Pechino accompagnata dall’avvertimento che le speculazioni saranno severamente punite.

Dopo le prime reticenze, e soprattutto di fronte all’entità della devastazione, le autorità cinesi cominciano ad autorizzare l’ingresso di squadre di soccorritori stranieri. Un primo gruppo di 31 esperti giapponesi ha iniziato la sua opera nella città di Guanzhuang, dove si teme che siano 700 le persone rimaste sepolte sotto le macerie delle loro case. Una seconda squadra nipponica è in arrivo, e il governo di Pechino ha dato il via libera all’arrivo di gruppi di soccorritori dalla Russia, la Corea del Sud, Singapore e anche Taiwan, che la Cina considera una propria provincia ribelle.


Dujiangyan, Sichuan, 15 maggio 2008 – Tofu, Tofu …
La Repubblica, di Federico Rampini

“Tofu, tofu!” è un mormorio rabbioso che sale dalla folla. Le famiglie si accalcano contro i cordoni di polizia che impediscono di avvicinarsi alle macerie della scuola crollata.

Le squadre di soccorso lavorano anche a tarda sera sotto i riflettori, ma a due giorni e mezzo dal terremoto hanno estratto solo un centinaio di corpi degli studenti sepolti. Ottocento sono ancora schiacciati là sotto. E continuo a sentire attorno a me quel “tofu, tofu!” E’ il budino di soya che i cinesi mangiano tagliandolo con le bacchette di legno come fosse burro. Qui il “tofu” a cui pensano è il cemento armato di quella palazzina scolastica, venuta giù di schianto sotto lo choc del sisma.

Circondati dalle divise, tra i militari e i poliziotti affluiti per i soccorsi, i terremotati di Dujiangyan vogliono dire a tutti che questa tragedia ha dei colpevoli. In mezzo ai cadaveri, in un odore nauseabondo, non hanno più nulla da perdere, la paura dell’autorità si allenta.

L’operaio di un’acciaieria vicina parla da esperto: “Io lo so come dovrebbero essere i tondini d’acciaio del cemento armato, quei brandelli di muri lisci e molli sono una vergogna: quello è tofu, è il tofu della corruzione. Quella scuola era uno schifo, sei piani di cemento lacerati di schianto, polverizzati. E’ stata costruita nel ’96, è roba quasi nuova, una vera porcheria, chissà in quanti ci hanno mangiato sopra”.

La corruzione che ogni giorno deruba un po’ per volta questa povera gente, ora si è portata via anche i loro figli: non hanno dubbi le centinaia di famiglie che attendono di vedere affiorare i corpi dai detriti. Sotto il fracasso delle ruspe qualcuno grida: “Arrestate il preside, fucilatelo!” e tutt’intorno è un mesto brontolìo di approvazione. Il preside è la prima autorità dello Stato che gli viene in mente, di fronte alle macerie della scuola. Forse non c’entra nulla il preside o forse sì ma allora con lui anche il sindaco, il segretario locale del partito comunista, tutti quelli che si arricchiscono sugli appalti, fino ai costruttori che risparmiano sui tondini, e calpestano le norme antisismiche.

Seduta in disparte sotto una tenda c’è una donna vestita di panno rosa, avrà quarant’anni e piange forte, una cantilena ossessiva, dondolando la testa avanti e indietro. Due donne ai suoi fianchi la tengono ciascuna per un braccio e lei su e giù, su e giù, ulula come una bestia ferita. Non ha più lacrime e la voce si fa sempre più roca. Si chiama Feng Jun, uno degli ultimi cadaveri estratti dalle macerie della scuola è suo figlio sedicenne, Lan Dongcheng. Lei non mangia e non beve da due giorni, ha lo sguardo fisso nel vuoto. Riesce a parlare sua sorella, la zia del ragazzo: “Lunedì lavoravo qui vicino, ho visto la scuola ondeggiare per un attimo, poi è scomparsa in una nuvola di fumo, un’esplosione, e non c’era più niente. Mia sorella ha patito tanti anni per avere quel figlio, credevamo che fosse sterile, ora non sa cosa farsene della sua vita”. I nonni sono due contadini poveri, accorsi qui dai campi, vagano con un’espressione inebetita.

Molti continuano a fissare quel moncherino di un edificio, quel taglio netto che ha amputato tutte le classi delle medie e del liceo precipitate in un baratro. Ormai non si spera più nel miracolo e quindi l’esercito cerca i morti con i mezzi pesanti: grandi gru dei cantieri edili, scavatrici, pale meccaniche. Tutte le famiglie sono radunate nel terrapieno vicino, forse un campo sportivo ormai irriconosicibile, che le pioggie di due giorni hanno trasformato in pantano. Nel fango c’è una fila di corpi fasciati, fiammelle che bruciano l’incenso, petardi che scoppiano per il rito fumebre. Qualche salma è solitaria: nessuno è venuto a riconoscerla. Forse sono morti anche i genitori. Oppure sono troppo lontani, ancora non sono riusciti a ritornare. Molti ragazzi di qui avevano i genitori emigrati nelle grandi città, a cercare lavoro in fabbrica. Le rimesse degli emigrati pagavano queste rette scolastiche.

Il bilancio ufficiale del terremoto ieri sera è salito a 14.500 morti, ma il vicegovernatore del Sichuan avverte che sono “dati incompleti”. Lui stesso aggiunge “26.000 sepolti sotto le macerie e dispersi”. Il totale rischia di salire a 40.000 vittime.

Intere città della regione sono spazzate via, cancellate dalla carta geografica. Dujiangyan è una delle tre cittadine nel triangolo della morte, l’epicentro del sisma. E’ la prima che si raggiunge perché dal capoluogo Chengdu ci arriva una superstrada. Dopo iniziano le montagne, le strade devastate da improvvisi crepacci, frane e smottamenti. Vicino a Dujiangyan ha stabilito il suo quartier generale il primo ministro Wen Jiabao, ansioso di mostrare che il governo risponde alla catastrofe con la massima efficienza. Qui l’esercito è già dappertutto, c’è una robusta avanguardia dei centomila soldati che il governo ha mobilitato, il cielo è solcato da un viavai di elicotteri. Tutto questo dispositivo militare aggiunge un tocco sinistro al paesaggio. Perché Dujiangyan sembra il teatro di una guerra. Più che un terremoto potrebbe essere passato un bombardamento: edifici sventrati, crateri di esplosioni. La furia ha colpito alla cieca, a caso. Scuole e ospedali ma anche supermercati, banche.

Davanti a una fila di negozi che sembrano incendiati è impossibile non pensare a Lhasa: non è molto distante il Tibet, e molti tibetani del Sichuan hanno preso parte alla rivolta di marzo, l’altra pagina nera di questo “annus horribilis” che molti cinesi cominciano a considerare maledetto. Si spiega il presenzialismo di Wen Jiabao, l’ansia di mostrare nella sciagura un volto umanitario del governo: bisogna interrompere la serie nera che sta funestando questo anno dei Giochi.

Dujiangyan ha conservato un minuscolo centro storico, con curiose pagode di legno che scavalcano il fiume come il Ponte Vecchio di Firenze: miracolosamente intatti, questi edifici antichi. Un tempo li circondavano solo risaie e campagne, più in là boschi e colline. Con lo sviluppo industriale il borgo rurale è esploso: 600.000 abitanti. La città moderna è un’escrescenza orrenda, la replica anonima di innumerevoli altre città cinesi, le “newtown” disseminate a velocità pazzesca dal boom economico, aggregati informi di asfalto e cemento, vetro e calcestruzzo, e neon sfavillanti a non finire. Tutto nuovo e già sporco, cresciuto troppo in fretta e malamente, i filari di caseggiati popolari e i centri commerciali.

Ora la Dujiangyan moderna è una città-fantasma, abbandonata da ogni segno di vita. Addentrandomi in quel silezio spettrale scopro un ragazzo tutto solo in cima alla montagna di macerie che era casa sua. Rimuove un pezzo di calcinaccio alla volta, con l’aria assente, senza mai sollevare lo sguardo, come se fosse rimasto l’ultimo essere vivente sulla terra. Quella è la città maledetta, con dei palazzi che hanno perso pezzi interi, “sparandoli” come proiettili in mezzo alla strada.

Corre voce che lo sciame sismico non è finito, altre scosse di assestamento potrebbero essere micidiali. Verità o leggenda metropolitana? Nel terrore di questi giorni la gente crede a tutto. Forse non era leggenda quell’allarme lanciato tre giorni prima del sisma da alcuni esperti di geologia, zittiti dalla censura del governo locale: un episodio misterioso le cui tracce sono state oscurate dal sito Internet dell’amministrazione municipale. Tutti i sopravvissuti ora se ne stanno alla larga, sono accampati in una seconda Dujiangyan, la città-gemella sorta nelle ultime 48 ore, una tendopoli improvvisata che ospita un esercito di sfollati più numeroso degli abitanti di Torino. Nelle piazze, lungo i viali, nei parchi, le tende di fortuna pullulano a perdita d’occhio, fino all’orizzonte. Piccole come loculi, aggrovigliate le une addosso alle altre. Questi rifugi larghi tre metri per quattro ospitano famiglie, nonni inclusi, quattro o sei persone su una sola brandina, pochi centimetri sopra il terreno fangoso. Manca ancora l’acqua potabile, si distribuiscono le mascherine respiratorie, le jeep dei servizi sanitari passano spargendo spray disinfettanti per paura di improvvise epidemie.

Per i soccorsi è ben visibile il movimento di una macchina imponente: colonne di camion dell’esercito, aerei cargo che atterrano a Chengdu con i rifornimenti, polizia, pompieri. Restano però dei buchi neri. Anche se da ieri ha smesso di piovere, nel triangolo della morte una delle località distrutte è ancora inaccessibile via terra, ha visto arrivare in avanscoperta solo cento paracadutisti lanciati dagli elicotteri. Del resto a Dujiangyan l’arrivo in massa dei soccorritori non è una panacea. La gran massa dei soldati sono reclute senza esperienza, frotte di ragazzi in divisa che si aggirano con un badile in mano in attesa di istruzioni. Sono quasi troppi, se nessuno gli insegna cosa fare. La vera protezione civile si riconosce dalle tute arancione, i caschi, i guanti speciali, i picconi: si notano perché sono pochissimi questi reparti specializzati. La sicurezza nazionale è una cosa seria per i dirigenti di Pechino; ma la tutela quotidiana dei cittadini cinesi, della loro salute e del loro ambiente, non è mai stata una priorità.

Certo la Cina non è la Birmania ed è netta la distanza tra le due reazioni alla calamità naturale. Il regime cinese non impedisce l’accesso alle zone terremotate, perfino la sua stampa nazionale fa uno sforzo di trasparenza insolito. Pechino non ha rifiutato le offerte di aiuti stranieri, anzi ha ringraziato, anche se “non potrà accogliere le squadre di esperti occidentali finché il genio militare non ripristina le strade e le comunicazioni”.

La macchina dei soccorsi cinese è una fotografia dello stato del paese. La task-force che lavora sotto lampade accecanti dei gruppi elettrogeni, tra le macerie della scuola che ha inghiottito i novecento ragazzi, è un’esibizione di potenza industriale. Tutte le macchine movimento terra dei vicini cantieri edili sono state mobilitate, l’energia meccanica si accanisce a frugare in quel cimitero a cielo aperto. Sono le stesse gru, le stesse scavatrici e gli stessi metodi che prima avevano costruito questa boom-town anonima fra centomila: in fretta, troppo in fretta, e senza scrupoli.


Cina, 15 maggio 2008 – Il bilancio fornito dall’agenzia Xinhua: almeno 30mila i dispersi, 60mila i feriti. Una bambina estratta dalle macerie dopo 68 ore
la Repubblica

Potrebbero essere più di 50.000 le vittime del terremoto che ha colpito lunedì la Cina sud-occidentale. Lo ha reso noto l’agenzia Xinhua aggiornando il drammatico bilancio del sisma. I soccorritori, ormai impegnati in una lotta contro il tempo per salvare gli ultimi sopravvissuti, hanno estratto viva una ragazzina di 11 anni dalle macerie della scuola a Yingxiu. Era sotto le macerie da 68 ore

L’agenzia ufficiale cinese ha citato come fonte il centro di coordinamento governativo dei soccorsi. In precedenza la stessa agenzia aveva detto che il numero delle vittime accertate è salito a 19.500, quasi tutte nella regione del Sichuan. I dispersi sono fra i 30.000 e i 60.000, a seconda delle fonti; i feriti oltre 60.000, di cui 12.500 circa in gravi condizioni.

Il governo cinese ha intanto assicurato che per il momento non si sono registrati focolai di epidemia nelle zone più colpite. Il vice-ministro della salute, Gao Qiang, ha tuttavia assicurato che le autorità continuano a stare in allerta, perché il rischio di malattie è in agguato. Secondo Gao, a breve comincerà la disinfestazione dell’acqua potabile e del cibo; la disinfestazione riguarderà ceppi specifici di virus e batteri, e i sopravvissuti saranno anche vaccinati. Il governo ha deciso inoltre di imporre un blocco temporaneo sui prezzi degli alimenti, dell’acqua e dei trasporti nelle zone colpite dal sisma – Sichuan, Gansu, Shaanzi e municipalità di Chongqing – per evitare casi di speculazione.

Uno scenario da incubo si profila nel già devastante panorama lasciato dal terremoto; uno scenario sul quale gli ambientalisti, da tempo critici nei confronti dei mastodontici progetti idroelettrici del governo di Pechino, avevano più volte messo in guardia. Potrebbero crollare le dighe realizzate per creare riserve idriche per l’imponente programma idroelettrico nazionale: secondo il ministro competente, quelli che vivono nella zona colpita dal terremoto rischiano “ulteriori disastri” se non saranno adottate misure per fronteggiare l’emergenza.

Le autorità hanno già aperto le paratie della diga di Zipingpu, vicino all’epicentro del disastro, per proteggere la vicina città di Dujiangyan. Due migliaia di soldati sono già stati mandati nella zona e secondo la Xinhua i sopralluoghi effettuati dagli esperti hanno certificato che la diga tiene, ma la pressione delle acque è stata comunque alleggerita per evitare cedimenti strutturali. E le autorità hanno accertato “situazioni pericolose” in oltre 400 riserve idriche del sud-ovest della Cina. Timori anche per la diga delle Tre Gole perché un malaugurato cedimento strutturale spazzerebbe via milioni di persone.


Cina, 14 Maggio 2008 – Sichuan terremoto e tabù
La Repubblica, di Federico Rampini

Il terremoto del Sichuan era stato previsto e l’avvertimento fu censurato dall’alto? A lanciare il “giallo” è un gruppo di studenti di Chengdu che ha ripubblicato su Internet un documento apparso la settimana scorsa sul sito del governo provinciale.

Tre giorni prima del sisma l’Ufficio Prevenzione calamità naturali aveva smentito l’allarme degli esperti su un sisma imminente. Ora di quella tragica decisione sono sparite le tracce, il diktat che vietò l’allarme è stato rimosso dal sito ufficiale.

I mass media di Stato intanto cercano di dare l’impressione che nulla viene nascosto all’opinione pubblica. La rete televisiva nazionale, Cctv, dispiega uno sforzo di trasparenza eccezionale. Le sue troupe dal Sichuan forniscono notiziari in tempo reale, in stile Cnn, a getto continuo.

E’ evidente la volontà di non ripetere errori del passato, come lo scandalo della Sars nel 2003, quando le autorità locali cercarono a lungo di occultare la vera dimensione dell’epidemia. La copertura televisiva dà spazio alle telefonate degli ascoltatori, alle interviste dei terremotati, alle testimonianze in presa diretta. Restano però dei limiti insormontabili. La gerarchia delle notizie continua a recare l’impronta del regime.

Priorità assoluta viene data ai messaggi positivi, alle immagini del presidente Hu Jintao che lancia direttive ai soccorritori, al premier Wen Jiabao che sul posto guida le operazioni nel Sichuan.

Gli spettatori vengono sommersi da un diluvio di cifre sulla macchina degli aiuti: 34.000 soldati mobilitati, 227 squadre mediche specializzate, 20 aeroplani da trasporto militare. Il bollettino non ammette dubbi, non affiorano le critiche sulla lentezza dei soccorsi, sulle vaste zone non ancora raggiunte dai militari.

Hu Jintao ha ammonito che “chi diffonde voci tendenziose per sabotare l’opera dei soccorsi sarà persguito con la massima severità della legge”.

E’ tabù il tema più controverso e più discusso nelle zone del sisma: tra gli edifici distrutti ci sono scuole e ospedali modernissimi, dove evidentemente i costruttori non hanno rispettato le norme antisismiche e le autorità hanno chiuso un occhio. E’ proibito chiamare in causa anche l’industrializzazione sfrenata che ha disseminato impianti chimici altamente tossici in prossimità dei centri abitati.

E nessuno cita il misterioso Impianto 821, un centro di produzione di plutonio per armi nucleari che si trova nel Sichuan. Top secret, impossibile sapere se ha subìto danni: ufficialmente è come se non esistesse.


Dharamsala (India), 12 maggio 2008 – il Dalai Lama elogia Pechino per la tempestività dei soccorsi
La repubblica

La tempestiva reazione delle autorità cinesi all’emergenza scatenata dal terremoto di ieri nella provincia sud-occidentale del Sichuan ha trovato un estimatore di eccezione nel Dalai Lama che, oltre a offrire le proprie condoglianze per le vittime del cataclisma, ha pubblicamente elogiato la velocità e l’efficienza dei soccorsi subito approntati da Pechino.

Il Sichuan confina con il Tibet, teatro in marzo di proteste di piazza che hanno scatenato una brutale repressione da parte della Cina, il cui regime accusa lo stesso Dalai Lama e il governo tibetano in esilio di aver fomentato i disordini per conquistare l’indipendenza; solo di recente, in seguito alle crescenti pressioni internazionali, il governo centrale ha accettato di riprendere i contatti con la controparte.

“Siamo colmi di solidarieta’ per le famiglie prostrate da questa immane tragedia”, ha dichiarato un portavoce del leader spirituale dei buddhisti tibetani, Thubten Samphel, parlando da Dharamsala, la cttadina nel nord dell’india dove il premio Nobel per la Pace 1989 vive in esilio da quasi mezzo secolo.




12 Maggio 2008 – L’autodistruzione della Cina
Limes, di Alfonso Desiderio – carta di Laura Canali

L’epicentro del terremoto in Cina è non lontano dalla diga delle Tre gole e dal Progetto idroelettrico di Nujiang, i monumentali simboli della crescita economica cinese ma anche due gravi minacce all’equilibrio ambientale in Cina.



Un sisma di magnitudo 7,8 della scala Richter ha colpito oggi il Sichuan, nel sud-ovest della Cina. Il terremoto è stato talmente forte da essere avvertito anche in Vietnam e Thailandia, oltre 3mila chilometri più a sud. L’epicentro del sisma è stato individuato a 92 chilometri  di Chengdu. La provincia è in pratica a metà strada tra la diga delle Tre Gole, l’enorme struttura idroelettrica costruita lungo il Fiume Azzurro, e il progetto di Nujiang.

I due progetti sono il simbolo della crescita economica della Cina e della volontà di modificare l’ambiente con progetti ciclopici per soddisfare l’accresciuta domanda interna di elettricità ed energia in generale, senza curarsi troppo delle conseguenze sulle persone (ad esempio la costruzione delle dighe ha comportato spostamenti biblici di popolazioni) e sull’ambiente.

Nella carta sono evidenziati, oltre ai due progetti citati, le principali aree a rischio ambientale in un paese dove il 60% del territorio ha un fragile equilibrio ambientale, oltre 2 milioni e mezzo di chilometri quadrati sono desertificati, il 90% delle praterie è in pericolo, il 44% della fauna selvatica e il 29% delle piante autoctone sono a rischio di estinzione.

La Cina rischia l’autodistruzione ambientale: circa un quinto delle città convivono con forme gravissime di inquinamento, interi distretti industriali del Sud sono coperti 12 mesi all’anno da nubi inquinanti, ogni anno si contano 300 mila morti per malattie dovute all’inquinamento.

Nella carta “L’autodistruzione della Cina”, sono indicati gli agglomerati e le città più inquinati, le regioni ad alto ritmo di deforestazione,  l’avanzamento della desertificazione e lo scioglimento dei ghiacci che minaccia le regioni a ridosso  dell’Himalaya. per saperne di più vedi Limes n.6/2007 Il Clima dell’energia.


Pechino, 12 maggio 2008 – Scossa di terremoto in Cina: oltre 10 mila morti nel Sichuan. Magnitudo 7,8 della scala Richter, ha colpito il Sud del Paese.Crollate scuole, ospedali, fabbriche. Centinaia le persone sotto le macerie. I palazzi hanno tremato anche a Shangai, Taiwan e Bangkok. Regge la Diga delle Tre Gole. Farnesina: gli italiani stanno bene La Repubblica


Una forte scossa di terremoto di magnitudo 7,8 gradi della scala Richter ha colpito il Sichuan, nel sud-ovest della Cina. Il governo di Pechino ha fornito un bilancio di almeno 10mila morti nella sola provincia dove è stato localizzato l’epicentro del sisma. Ma il premier cinese Wen Jiabao accorso sul posto per gestire i soccorsi ha detto in un’intervista televisiva che la situazione “è più grave di quanto in precedenza stimato”. Almeno 10mila i feriti nel distretto di Beichuan dove l’80 per cento degli edifici sono stati distrutti, tra cui l’ospedale di Dujiangyan, secondo l’agenzia ufficiale Xinhua. Secondo l’Istituto geosismico americano si tratta della scossa più forte dopo quella di magnitudo 7,9 che colpì l’Indonesia nel settembre dello scorso anno.

Soccorsi difficili
. Le autorità prevedono che il bilancio delle vittime possa aggravarsi. L’esercito intanto ha raggiunto le zone colpite e ha cominciato a scavare ma le operazioni sono rese più difficili dalla notte che intanto è calata sull’area devastata. Molte delle aree sono rimaste isolate: gran parte delle strade non sono infatti percorribili, e le comunicazioni telefoniche risultano quasi ovunque interrotte.


Scuole e impianti chimici crollati. Il terremoto ha sepolto sotto le macerie 900 studenti di un liceo di Dujiangyan, dove finora sono state estratte cinquanta salme. La tv di Stato ha detto che sono almeno otto gli edifici scolastici crollati seppellendo sotto le macerie un numero imprecisato di studenti delle elementari e delle medie. Nello Shifang due impianti chimici sono crollati seppellendo centinaia di lavoratori e causando una perdita di 80 tonnellate di ammoniaca: 6.000 residenti sono stati evacuati.


La scossa principale di magnitudo 7,8 di, alle 14.28 locali (le 8.28 ora italiana) ha avuto come epicentro la regione montagnosa del Wenchuan. A seguire si sono registrate oltre 300 scosse di assestamento e secondo i geologi cinesi un sisma di tale intensità può causare altre scosse devastanti. La scossa è stata tanto violenta da essere avvertita a Pechino, Shanghai, Taiwan, Hanoi, fino anche alla capitale thailandese Bangkok, dove i palazzi hanno continuato a tremare per diversi minuti. L’area coinvolta si stima sia pari a 1,3 milioni di chilometri quadri, in cui vivono circa 180 milioni di persone, circa un decimo dell’intera popolazione cinese.

Panico a Pechino. A Pechino la gente si è riversata per le strade nel panico, fuggendo dagli edifici che tremavano. Sembra invece intatta la colossale Diga delle Tre Gole, ancora in via di completamento, che sorge lungo il corso del Fiume Azzurro, nella non lontana provincia centrale dello Hubei: il peso della massa d’acqua contenuta nel gigantesco bacino del discusso impianto idrico, a detta degli esperti, è tale da accrescere il pericolo di forti attività sismiche nella regione.


Nessun italiano fra le vittime. Gli italiani nel Paese stanno bene, ha detto l’ambasciatore italiano in Cina Riccardo Sessa. Sono ventisei i connazionali che risiedono nella regione colpita, tutti contattati personalmente. L’Astoi, l’Associazione che riunisce i maggiori tour operator italiani, sta contattando in queste ore i tour operator che effettuano viaggi in Cina, anche se la zona, pur essendo turistica, non è una meta particolarmente servita dalle agenzie italiane, spiega il presidente Roberto Corbella.