Occupy Central. Disobbedienza civile per la democrazia – Hong Kong 14/01/2015
Il Capo dell’Esecutivo di Hong Kong è stato contestato duramente, in occasione del primo discorso politico davanti al Consiglio Legislativo dopo le proteste democratiche di Occupy Central. Appena Leung Chun-ying è entrato nell’aula del piccolo Parlamento del Territorio, un gruppo composto da circa 20 deputati democratici ha aperto gli ombrelli gialli (simbolo della protesta democratica dei mesi scorsi) e ha chiesto a gran voce le sue dimissioni. Prima dell’inizio del discorso, il gruppo ha poi abbandonato l’aula. Il politico è nel mirino dei democratici perché non ha presentato alla Cina in maniera realistica le richieste della popolazione per un vero suffragio universale. Inoltre, egli è contestato per il modo in cui ha gestito gli oltre due mesi di manifestazioni pubbliche scatenate dalla proposta di riforma politica che non concede a Hong Kong una vera democrazia. Nonostante i cori e le urla dei democratici, Leung ha mantenuto il sorriso mentre si avvicinava al podio. Ignorando gli inviti del presidente del Consiglio Tsang Yok-sing, i deputati hanno continuato a urlare “Vergogna!” al capo del governo. All’esterno, circa un centinaio di politici democratici della galassia dell’opposizione locale ha continuato a manifestare durante tutta la seduta. La situazione è rimasta pacifica, nonostante la presenza sulla scena di decine di poliziotti.
Alan Leong, uno dei capofila del movimento democratico, ha spiegato dopo l’uscita dall’aula che il Capo dell’Esecutivo “ha fallito in tutto. Non merita il rispetto della popolazione e non ha il diritto di parlare come leader del nostro governo. L’uscita dal Consiglio è un modo per mostrare il nostro scontento nei confronti dell’amministrazione”. Le proteste non hanno scalfito Leung, che nel suo discorso ha messo in dubbio la “capacità di comprensione” dei democratici, “incapaci” a suo dire di penetrare le intricate profondità della politica della semi-autonoma città cinese. Il leader ha poi sottolineato che “il potere di Hong Kong si origina da quello delle autorità centrali di Pechino. L’autonomia del Territorio ha un alto livello, ma si ferma lì. Non abbiamo autonomia assoluta”.
La premessa a questi fatti è stata la dura protesta contro il diktat di Pechino, che ha di fatto eliminato la possibilità del suffragio universale per le elezioni del capo dell’esecutivo di Hong Kong, attivisti e deputati democratici hanno interrotto il discorso di un alto funzionario cinese e hanno accusato il governo del territorio di aver “infranto le promesse fatte”, comportandosi in maniera “vergognosa”. La protesta ha costretto Li Fei, vice Segretario generale del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo cinese, a fermare l’incontro con i funzionari di Hong Kong. I manifestanti sono stati portati via dalla polizia. Subito dopo lo sgombero degli attivisti da parte delle autorità, Li Fei ha ripreso il suo discorso e ha chiarito la posizione ufficiale: “Qualunque leader che voglia per Hong Kong un futuro da entità politica indipendente o che intende cambiare il sistema socialista della nazione non avrà alcun futuro politico. La posizione cinese riguardo il suffragio universale e la democrazia di Hong Kong “chiude ogni speranza di dialogo. Ora si apre una nuova era di disobbedienza civile, iniziando con un sit-in nel Distretto finanziario”. Lo ha dichiarato Benny Yiu-ting, uno dei 3 leader di Occupy Central, il movimento pro-democrazia, commentando il discorso con cui Li Fei ha spiegato la posizione di Pechino.
Nonostante accordi politici formali, una Costituzione ancora in vigore, un referendum con quasi 800mila aderenti, centinaia di proteste civili pacifiche, la Cina continentale ha negato all’ex colonia britannica di votare in maniera democratica per la propria guida politica. Il governo di Pechino ha spiegato che la Commissione elettorale verrà rimpiazzata da un altro gruppo (delle stesse dimensioni e composto più o meno dalle stesse persone) che avrà il compito di approvare “due o tre” candidature al ruolo di capo dell’esecutivo. Gli attivisti democratici di Occupy Central rispondono annunciando nuove proteste.
Hong Kong, ex colonia britannica, è tornata sotto il governo della Cina continentale nel 1997 a seguito di un accordo (firmato nel 1984) fra Pechino e Londra. In quell’occasione, la Cina diede il suo assenso a governare il territorio sotto il principio “una nazione, due sistemi”, secondo il quale la città avrebbe goduto per altri 50 anni di “un alto livello di autonomia, fatta eccezione per le questioni estere e di difesa”. All’atto pratico, Pechino accordava a Hong Kong un proprio sistema legale e la protezione di diritti di base come la libertà religiosa, di assemblea e di parola. Fino a oggi il capo dell’ex colonia, che guida l’esecutivo, è stato eletto da una Commissione elettorale composta da 1.200 membri: tutti membri delle élite industriali e politiche del Territorio, e quindi molto vicini alle posizioni di Pechino, divisi in quattro macro-settori: business, professionisti, politici, società civile. Per eleggere i membri della Commissione esistono due tipi di voto: quello popolare e quello delle corporazioni. Questo modus operandi era stato deciso per “dare il tempo alla popolazione” di abituarsi alle nuove libertà e votare solo nel 2017 in maniera pienamente democratica: sotto il dominio inglese, infatti, non vi era una reale rappresentanza popolare. Ma la Basic Law, la piccola Costituzione eredità dei britannici e approvata dalla Cina continentale, recita chiaramente che “lo scopo finale” è quello di eleggere il capo dell’esecutivo “tramite suffragio universale”.
Lo stesso governo cinese ha promesso in più occasioni libere elezioni per l’appuntamento del 2017. Ma nell’agosto del 2014 la massima autorità legislativa cinese – il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo – ha deciso che i votanti di Hong Kong avranno la possibilità di scegliere solo da una lista di due o tre candidati prescelti da una Commissione incaricata di nominare “le persone adatte al ruolo”. La formazione di questa Commissione è da stabilirsi, ma di certo essa “deve essere in accordo” con quella elettorale già esistente e di fatto nelle mani di Pechino. Ogni candidato intenzionato a correre per il ruolo di capo dell’esecutivo dovrà ottenere almeno il 50% dei voti della Commissione per essere inserito in lista. Secondo gli attivisti democratici, la Cina userà la Commissione per scremare i candidati non graditi. Secondo il testo approvato dall’Assemblea nazionale del popolo “il capo dell’esecutivo di Hong Kong deve essere una persona che ama la nazione e Hong Kong. Questo è un requisito base per la politica ‘una nazione, due sistemi’, è previsto dalla Basic Law ed è necessario per mantenere la prosperità e la stabilità a lungo termine di Hong Kong. Inoltre, è necessario per rafforzare la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina intera”. In pratica, chi ha una posizione critica nei confronti di Pechino “non può ricoprire questo ruolo”.
A guidare la protesta popolare contro la posizione cinese è il movimento pro-democrazia “Occupy Central”, guidato da una terna di attivisti di lungo corso: il reverendo battista Chu Yiu-ming, il docente universitario Benny Tai Yiu-ting e il dottor Chan Kin-man. Il gruppo ha organizzato un referendum non ufficiale: i votanti dovevano scegliere fra tre proposte riguardo le elezioni 2017, tutte incentrate sulla scelta popolare per i candidati. Il card. Joseph Zen, vescovo emerito, ha concluso lo scorso 20 giugno una marcia di 84 chilometri in decine di distretti di Hong Kong per spingere i cittadini a partecipare. Con un’affluenza record, un totale di 792.808 cittadini ha espresso il proprio voto: si tratta di un votante su cinque, un risultato che secondo gli organizzatori dimostra l’enorme sostegno popolare “non tanto a Occupy Central, quanto alla democrazia per Hong Kong”. Poco dopo il voto, quasi 500mila persone hanno manifestato nell’annuale Marcia per la democrazia del 1 luglio.
La Cina ha risposto condannando le proteste e definendo il referendum “una farsa”. Li Fei, vice Segretario generale del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo, ha spiegato che “avere candidati nominati in maniera libera non farà altro che creare una società caotica” e ha ricordato che il capo dell’esecutivo “deve come primo requisito amare la patria”. Inoltre, nel suo “Libro bianco” del giugno 2014, la Cina ha sostenuto che “qualcuno ha un concetto confuso e pieno di buchi del modello ‘una nazione, due sistemi’. Hong Kong ha un alto grado di autonomia, ma non autonomia piena. È Pechino l’ultimo livello di giurisdizione”.
Il movimento democratico ha atteso fino all’ultimo, sperando nell’apertura di un canale di dibattito. Ma le decisioni prese ieri dalla Cina continentali e ribadite questa mattina proprio da Li Fei, secondo Benny Tai, “chiudono la porta a tutto. Ora nasce una nuova era di disobbedienza civile, iniziando da un sit-in di massa nel Distretto finanziario della città. Siamo delusi da quanto accaduto”.
Fonte: AsiaNews